Forever Jung (Archetipi Milanisti) – Capitolo III: il Creatore

(a cura di Antonio “Vannucco” Rampini)

L’archetipo del Creatore secondo Carl Gustav Jung ha a che fare con la coscienza del nostro ruolo nel mondo come persone, e nel mondo del calcio come milanisti. È indubbio che il nostro essere rossoneri sia stato “ricreato” grazie all’opera di Arrigo Sacchi, il visionario “Profeta di Fusignano” (sì, detto così suona strano che abbia vinto). Fu lui a plasmare il Milan che oggi viene definito da più parti (…quelle che non rosicano) la più forte squadra di tutti i tempi. A fare tutta la differenza del mondo non è solo quanto vinto da Sacchi (uno scudetto, due Coppe Campioni, due Coppe Intercontinentali, due Supercoppe europee e una Supercoppa italiana) ma è il “come” lo vinse, il modo in cui voleva vincere. Lo abbiamo definito visionario, ed è così: Arrigo usò l’immaginazione per ribaltare e scardinare regole e convinzioni su cui si strutturavano le squadre di calcio. Fu altrettanto visionario forse colui che ebbe il coraggio di sceglierlo, ma questa è un’altra storia.
 
Arrigo Sacchi aveva una minima esperienza di calcio giocato e allenato quando arrivò alla guida tecnica del Milan. Il suo provincialissimo percorso era stato: Fusignano, Bellaria, Rimini, Parma. Una scalata graduale, inesorabile, alla quale aggiunse Milan e Nazionale, prima di iniziare a soffrire di vertigini, capogiri legati alla troppa pressione. Non quella che gli metteva il calcio, ma quella che lui metteva tanto a se stesso quanto ai giocatori, un pressing senza tregua, al quale anche lui ha dovuto arrendersi – dimostrando, in fondo, quanto il suo modulo fosse implacabile. Assalto al portatore di palla, interscambi continui tra i reparti, difesa alta, fuorigioco.
 
Il calcio che vediamo oggi discende almeno per metà da variazioni e approfondimenti del suo concetto di gioco di squadra. Jung direbbe che lo portò a svelare qualcosa che nel futuro già esisteva, ma che in quel momento si poteva solo immaginare. O profetizzare – di qui il suo soprannome, il Profeta di Fusignano.
Immaginò che il Milan superasse i suoi limiti, immaginò giocatori sempre tesi verso la perfezione, anche quando sembravano già perfetti: si racconta che costrinse l’Eroe Franco Baresi a guardare videocassette con le partite di Signorini, all’epoca libero del Parma. Non sappiamo sia vero, Franco lo negò, ma è certo invece che i suoi allenamenti facevano sbarellare le convinzioni dei suoi giocatori: faceva giocare alla squadra partite intere a tutto campo e senza il pallone, per far memorizzare al gruppo i movimenti che cercava. Non mollava MAI: metteva a dormire in camera insieme i giocatori dello stesso reparto così da poter continuare a parlare a entrambi della partita, quando passava a dare la buonanotte. Tassotti, che dormiva con Maldini, ha ricordato che qualche volta spegnevano la luce facendo finta di dormire quando sentivano che Sacchi stava arrivando. Altri si nascondevano sentendo i suoi passi, qualcuno si tuffava nelle siepi come in un cartone animato, pur di sfuggirgli, forse qualcuno si fingeva morto. Fatalmente, con tutto questo rigore, il giorno in cui provò a vincere l’unica coppa che gli mancava, fu tradito dai rigoristi.
Arrigo voleva una squadra che fosse sempre concentrata sulla partita, a pensare, digerire, immaginare il suo calcio, prevedere (profetizzare) ogni mossa di compagni e avversari – una squadra che fosse dominante fisicamente e tecnicamente, una squadra che potesse attualizzare insomma il potere della “creazione collettiva” Junghiana. Si parte dall’immaginazione di uno (“il Milan migliore squadra del mondo”), gli si somma quella di un altro, e un altro ancora e ancora e così via, fino a crearla per davvero quella squadra, che arriva a modellare l’intero universo del calcio, vittorie epiche e prestazioni comprese.
 
Non mancarono gli ostacoli. D’altronde si stava percorrendo una strada mai esplorata prima, e il rischio di passare (archetipicamente) dall’euforia alla paura era sempre concreto. “Sacchi non mangerà il panettone”, scrivevano in molti all’inizio (faticoso) dell’esperienza. Col tempo sappiamo dove arrivò. Ma anche dove NON arrivò. Sì, molti pensano che quel suo Milan avrebbe potuto vincere addirittura di più.
Forse è vero.
Ma il grande valore di Sacchi è anche nell’avere creato un’idea di Milan archetipica in sé, che permise vittorie anche alle squadre dei suoi successori. Quello che impresse nei suoi uomini e nei suoi tifosi fu che la vittoria era diretta conseguenza del bel giuoco, perché l’arte (e il calcio di quel Milan lo era eccome, arte) secondo Jung è l’espressione massima dello spirito, della visione del Creatore. Arte che diventa bellezza in campo, con l’immaginazione che tramite la padronanza della tecnica (pedatoria) arriva a dare forma concreta a quanto ci sembrava in un primo momento irraggiungibile. Per poi continuare verso la grandezza assoluta.
 
Certo, avere in squadra probabilmente la migliore difesa ever (Tasso, il Capitano, Billy e Paolo) a cui aggiungere Marcolino Van Basten, Donadoni, Gullit, Ancelotti, Evani, un Colombo in trance agonistica e in seguito anche Rijkaard, beh, avrà aiutato: ma nessuno, prima di Sacchi, aveva sparigliato le carte in quel modo, con la maniacalità dell’immaginazione, della visione. E se idealmente rigettava l’importanza dei singoli (“lo schema è sempre più importante” penso lo si possa virgolettare), secondo Arrigo il miracolo riesce quando si convince il campione ad affidarsi totalmente al progetto (ovvero: se si riesce a farlo correre come se da questo dipendesse la sua vita). Insomma, campione + schema. Lui ci riuscì, anche se orgoglioso affermava l’intercambiabilità degli interpreti.
 
Quel Milan alla fine del suo ciclo fantastico arrivò a rigettare per consunzione il proprio Creatore. La sua maniacalità, i quattro anni di stress puro e il costante rigore (non il #rigoreperilMilan, ehm) del lavoro imposto, lo resero insostenibile ai giocatori, e se si fosse continuato con lui probabilmente si sarebbe rischiato di bruciare l’intera esperienza. Sacchi chiese l’allontanamento di Van Basten, che non ce la faceva più, letteralmente – ma alla fine fu l’Arrigo a dover lasciare.
A quel punto subentrò Capello, pragmatico e attento, ma al suo confronto rilassato, quel tanto che bastava ad arrivare e vincere 4 scudetti in 5 anni in pratica con la stessa squadra, che sa di poterlo fare. Dopo di lui, un altro ciclo fu aperto da Ancelotti: allievo di Sacchi, ma spiritualmente meno ossessionato dalla Creazione. Dopo tutto, c’era già stata.
 
Tra “Don Carlos” e “Padre Pioli”, il Milan ha avuto nove allenatori in dieci anni. Un numero sconfortante, che ci ha portato a oscillare tra pragmatici (Allegri), apparenti “maestri” (Giampaolo, forse anche Montella e per Silvio, Brocchi), sergenti (Sinisa, RInghio), fantasiosi (Leonardo), e bandiere (Pippo, Clarence). Questo tumultuoso susseguirsi potrebbe essere anch’esso una conseguenza dell’onda lunga del Creatore: la girandola inizia nel 2009, subito dopo che l’ultimo dei Sacchiani (Paolo Maldini) lascia il calcio giocato. Fatta eccezione per Tassotti – ma nel ruolo di allenatore in seconda, mai invitato a salire in cattedra – è come se l’uscita degli apostoli di Arrigo rivelasse quanto era alto e difficile da raggiungere il pulpito del Creatore. Ogni allenatore invitato a salirvi, ha lasciato una sensazione di parziale o completa delusione nei milanisti, che hanno evidentemente bisogno di vedere in panchina qualcuno che immagini calcio, e non qualcuno che parcheggi autobus o punti a vincere di cortomuso.
 
Sacchi creò un gioco, e ri-creò il Milan, rinnovandone l’immagine
(perché non è che a livello internazionale non fossimo conosciuti, eh: quel Milan pre-Sacchi e pre-Berlusconi aveva vinto dieci scudetti e un numero di trofei internazionali superiore a quello delle altre squadre italiane dell’epoca)
e imponendone insieme l’idea al mondo: contribuendo così a creare una intera generazione di milanisti.
L’immaginazione (del Creatore) al potere.

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