Adli, Spartacus

(di Ilaria Mainardi)

Lunedì 22 aprile, nel tardo pomeriggio, mi apprestavo a verificare se davvero avevo rinnovato l’abbonamento di DAZN e se avrei quindi potuto godere delle audacissime imprese dei nostri cavalieri dal cor gentile, i quali mai – MAI – ci avrebbero fatto alzare lo scudetto in faccia dagli altri, quelli un po’ azzurri (non i puffi, gli altri). A Pisa – dé, lo so che il racconto avrebbe guadagnato di un’ambientazione entro Abbiategrasso, ma sono pisana – era stata una giornata uggiosa come poche, il che contribuiva a quel giramento a elica che può comprendere appieno solo chi conosce il clima putrido del lungo Arno e le zanzarone vampire che perennemente lo infestano.

DAZN funzionava, la sera era scesa e la sconfitta della Roma contro il Bologna era la piccola rivincita che ci meritavamo, ma non quella di cui avevamo bisogno.

Si comincia. Ed ecco la prima sorpresa. Al minuto otto le reti erano ancora inviolate, soprattutto la nostra. Non succedeva, mi sa, da almeno un paio d’anni. Buon presagio.

Seconda sorpresa: Theo fa una carezzina a Barella, il quale non la prende bene e si butta in terra come se fosse caduto dalla condotta a cui è appeso James Stewart nell’intro di “La donna che visse due volte”. Però la sorpresa non è la simulazione di Barella, quella è la norma, ma la reazione stizzita, ai limiti del RoyKeanismo, di Yacine Adli.

Ma come? Il nostro violinista, colui che va a sincerarsi delle condizioni di chiunque nel raggio di dieci kilometri dallo stadio adesso è diventato più rissoso di Vinnie Jones?

All’improvviso, così come deve essere se no James Joyce si incazza, l’epifania. Dal pratino zuppo di San Siro, il pensiero è volato alla Repubblica romana del I secolo a. C., un’epoca sordida di corruzione e di tutte-le-cose-brutte che ci possono venire in mente. Nella Roma bruttissima di quei tempi, c’era questo giovane schiavo a cui piaceva giocare ad harpastum. Si chiamava Adlio Yacinio ma tutti lo conoscevano, senza una ragione apparente, come Spartacus.

Spartacus non era proprio un fulmine, nella corsa, e siccome a noi ci piacciono i nomi parlanti, come a Manzoni, possiamo riferirci alla storia originale e dire che fu notato, mentre giocava, nientemeno che da LENTULO Batiato, una specie di Beppe Riso ante-litteram. A un certo punto, dato che, insomma, panem et circenses va pure bene, ma i bilanci devono quadrare, il presidente della principale squadra di harpastum di tutta la Repubblica, tale Gerro Licinio Cardinale, un uomo assai Crasso, decise di acquistare il prode Adlio per due sesterzi e un quarto di bue. Non una braciolina di più. Siccome a quei tempi non c’erano i match analyst e di solito le cose si risolvevano nelle arene, Spartacus dovette guadagnarsi il posto sul campo, sconfiggendo uno schiavo persino più lento di lui, Bravus Rade Crunicus, da tutti chiamato, senza alcun perché, Antonino. Spartacus aveva finalmente il suo posto nella mediana del Milan A.vanti C.risto – ma quello che per cui lottava davvero era la libertà di tutti mediani lenti, di tutti i mediani, di tutti, di tuttissimi che nemmeno uno doveva restare sotto il giogo di Gerro Licinio Cardinale e del suo sodale, Gracco Furlano.

 

Così, all’indomani della sfida contro la fortissima squadra di un Imperatore cinese della dinastia Shang, Spartacus si rivolse al Senato e disse, quasi letteralmente: Friends, Romans, countrymen, lend me your ears. Noi ci siamo rotti il [censura]: se vogliamo vincere il campionato di harpastum, non ci servono schiavi da due sesterzi e un quarto di bue, ci servono uomini LIBERIII.

Gerro Licinio Cardinale, appena saputo dell’affronto del giovane schiavo lento di Lentulo, chiese che la punizione fosse esemplare, come minimo la crocefiss… vabbè, due giornate nella cavea.

Ma il problema è che Gerro Licinio Cardinale, sempre crasso e sempre impegnato in luoghi che ancora l’uomo nemmeno sapeva che esistessero, non sapeva riconoscere chi, in mezzo a quei lentoni di prima categoria, fosse Adlio Iacinio Spartacus.

“Io sono Spartacus”, gridò Davidus Calabriae.

“Io sono Spartacus”, gli fece eco Raffaellum Panthera Leo.

“Io sono Spartacus”, disse a gran voce a.Christianus Pulchritudĭnis.

“Io sono Zlatanus”, tuonò il legionario Ibrahimus, un po’ per farli smettere ma soprattutto, per abitudine – ma in coro tutti gli altri, da Teophilus Hernandus a Loftus Cheekus Loftus, da (Fi)Caio Tomorio al giovane Camardo Parvulo insistettero “Io sono Spartacus”.

Non potendo punire tutta la squadra e commosso dalla solidarietà dimostrata dai suoi giocatori, Gerro Licinio Cardinale decise di liberarli dal giogo della schiavitù e di prendersi una pausa. Spartacus sarebbe diventato, almeno per un po’, il presidente ad interim (…sembra una parola volgare, ma è latino) del Milan A.vanti C.risto e si sarebbe attivamente occupato della campagna. Non una campagna militare e nemmeno la campagna dell’agro romano, ma proprio una campagna acquisti.

E se la storia vera non combacia con questa, non c’è da stupirsi. Del resto, questa (non) è Sparta-cus.

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