FOREVER JUNG (Archetipi Milanisti) – Capitolo I: il Mago

(a cura di Antonio “Il Vannucco” Rampini)

Un tempo qualcuno diceva che d’estate si potevano fare anche letture intelligenti. ComunqueMilan, in omaggio a Milan Kundera (che non si chiamava così per caso) è un po’ sbalordito ma anche lieto di proporvi una lettura molto intellettuale, a cura di Antonio “Il Vannucco” Rampini, dedicata ai simboli del milanismo. Ecco a voi…
FOREVER JUNG – Archetipi milanisti
– Introduzione –
In un’estate resa ancor più bollente da tanti addii di milanisti importanti, abbiamo scoperto l’esistenza degli archetipi. “Ibrahimovic, se ne va un emblema del Milan”. “Tonali sarebbe potuto diventare come Rivera, simboli rossoneri”. “Fuori Maldini, archetipo del Milan”. A me sembra di aver visto davvero questi strilli in giro, e ci hanno fatto pensare a questa serie a puntate per ragionare sulle figure fondamentali e a volte ricorrenti nella Storia del Milan, che spiegano il tutto che diventa uno e l’uno che diventa Maignan.
Secondo Carl Jung, eminente psichiatra neutrale, l’archetipo è un modello, un simbolo che sarebbe alla base di tutti i comportamenti. Per il discepolo e poi rivale di Sigmund Freud, dodici sono gli archetipi, fonti primarie che danno vita alla coscienza umana: il Saggio, il Creatore, l’Innocente, l’Orfano, l’Eroe, l’Angelo Custode, l’Amante, l’Esploratore, il Ribelle, il Sovrano, il Mago, il Giullare. L’archetipo rossonero insomma rappresenta e forma quelle categorie di “modelli” che ci hanno aiutato a strutturare il nostro inconscio collettivo di milanisti. E oggi cominciamo con…
 
Capitolo I – IL MAGO
 
Nella descrizione Junghiana degli archetipi, il Mago è colui che tramite il pensiero trasforma la realtà interiore ed esteriore. Il Mago del Milan è stato colui che tanto tempo fa spinse un popolo a prendere coscienza che eravamo tutti collegati, la squadra e i suoi tifosi. Per tanto tempo, prima del suo arrivo, c’erano stati giocatori grandi e anche grandissimi, ma nessuno prima di lui aveva fatto così tanto per forgiare la nostra coscienza di essere milanisti, di essere fatti a modo nostro e di non avere nulla a che fare con le altre squadre e gli altri tifosi. E questa fu la principale di tante magie di un sedicenne dell’Alessandria: ci portò la consapevolezza dell’essere (rossoneri).
Gianni Rivera, questo il nome del ragazzino, fu fin dagli esordi una figura che semanticamente risultava doppiamente vera (ri-vera, direbbe forse Jung) e sarà anche per questo che diventerà il primo giocatore italiano a vincere il Pallone d’Oro, oltre a essere il numero 10 della prima Coppa dei Campioni vinta da una squadra italiana.
 
Un Mago è naturalmente figura controversa. Chi non crede nella magia lo vuole smascherare – e il principale scettico che il ragazzo incontra sulla sua strada è il vescovo Brera. Questi, da Golden Boy o “Bambino d’oro” (definizione che più avanti verrà data a un altro numero 10, un argentino) lo declassa ad “abatino” come per schernirne la trascendenza, bollandola come mancanza di fisicità: in realtà gli avversari lo trovava tosto. E vent’anni nella prima squadra di Milano d’altronde lasciano il segno, facendolo crescere nelle prestazioni e nella consapevolezza: coppe e campionati si susseguono, il piede vellutato si abbina alla forte personalità. Non sono coincidenze se con Rivera il popolo milanista arriverà a comprendere la realtà di un mondo pedatorio in balia di malavitosi. Anche se certe manifestazioni non saranno mai comprensibili fino in fondo: dal punto di vista della psicanalisi non ci sono spiegazioni possibili per certe squadre senza colori, è meglio non provarci: non sarebbe troppo (Lo) Bello. E tuttavia, la battaglia che va combattuta con lui è la battaglia per la vita: Nereo Rocco afferma: “Rivera xè la nostra Stalingrado”.
 
Anche quando viene sospeso dai detentori del potere per la sua eresia, ovvero avere cercato di opporsi al destino da loro deciso per il Diavolo, Rivera è il nuovo respiro donato ai milanisti. Personalmente, cresciuto in una famiglia di non credenti (tutti giuventini) riconosco come sia stato il Golden Boy ad operare il miracolo, la magia. Perché nella sua era, la RIV-era, il nostro eterno 10 non solo porta il pensiero a trasformare il calcio, ma trasforma in devoti rossoneri tanti ragazzi altrimenti “perduti”.
(che nell’idea trascendente di Rivera si rincoglioniscono: avevo circa 10 anni, Rivera era a Pavia in un ristorante in cui io e mio padre stavamo cenando. Mio padre lo vede, “c’è Rivera” mi dice, “vai a farti fare un autografo”. Salivazione a zero, tremori diffusi, perdita dell’uso della parola, occhi bassi, insomma mi avvicino al tavolo e porgo il biglietto… alla persona sbagliata! Potenza della magia!)
 
Il Mago, per Jung, è il detentore della conoscenza (calcistica). Colui che, grazie allo studio e alla costante pratica, è riuscito ad accedere a segreti riservati a pochi. Insomma, il Mago è un Fuoriclasse. Come tale, riempie della sua essenza il mondo. E un Mondiale – come nei supplementari di Italia-Germania, che non furono sufficienti a fargli disputare la finale contro il Brasile (un altro scettico, Ferruccio Valcareggi, preferì perdere 4-1 senza di lui).
È compito e dovere di chi ha visto tanti giocatori, di cercare di comunicare a chi ne ha visti un po’ meno il senso di quanto è stato fatto nella nostra Storia. Il Milan è oggi, è ieri, è domani, è sempre. E la Storia di ogni squadra è unica: nella nostra storia unica, chi ha visto un Mago vivrà nella certezza che era riservato a noi, e nella fede di vederne un altro – altrimenti, perché anche i più giovani sanno come mai proprio la maglia numero 10 è la più simbolica di tutte quelle rossonere?
Rivera ha stabilito che il tifoso milanista sognerà sempre qualcuno capace di esplorare l’invisibile alla ricerca del senso dell’esistenza – e del gol.
Creare continuamente stupore, trasformando palloni improduttivi in assist per Pierino Prati (per dirne uno), degno assistente di finali di Coppa: Rivera, come il Mago, fa accadere le cose, riuscendo addirittura a compiere il miracolo dello svuotamento improvviso della curva, nella partita decisiva per la Stella del 1979.
Tre campionati, due Coppe Campioni, due Coppe delle Coppe, un Campionato d’Europa, un titolo di capocannoniere, un Pallone d’Oro e, per chi crede nella loro esistenza, quattro Coppe Italia.
Tutto positivo, allora? Anche no, sempre archetipicamente parlando. Se l’assist-man trova letteralmente nuove soluzioni (di gioco), del dirigente non abbiamo grandi ricordi se non una linea di abbigliamento calcistico, forse perché si trovò a gestire il Milan in un tempo faticoso e “travagliato” e appena antecedente un’epoca che superò persino la grandezza e divenne grandeur, un ciclo vincente e assoluto, nell’opera di un altro archetipo junghiano che vedremo in una prossima puntata: il Sovrano.
Ma la grandezza del 10 Rivera resta, un tassello comunque fondamentale per la crescita della nostra coscienza rossonera.

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