Problemi percepiti e problemi reali

(di Adriano Marconetto)

Abbiamo iniziato la stagione appaiati. 19 scudetti a testa ( e poco importa se loro in realtà ne hanno vinto uno con uno spareggio contro dei bambini e un altro di cartone. Cioè importa molto, ma non nel mondo del calcio italiano, regolato da leggi tutte sue). Chi vince il prossimo, cioè loro, va a 2 stelle. In un contesto del genere la proprietà e la dirigenza del Milan una cosa, e una sola cosa, avrebbero dovuto scongiurare, ovvero ciò che succederà stasera a nostro spregio, oppure la settimana dopo.

Non lo stadio nuovo (che serve), non il bilancio in utile (che è utile), non la partecipazione alla Champions o ad altre coppe. Quest’anno contava evitare questa macchiolina che resterà per un po’. Fino a quando loro potranno indicarla e gloriarsene.

Ma non ci poteva arrivare, un Milan senza milanismo. Un Milan con un proprietario che, all’atto dell’acquisto, si sorprese molto nello scoprire che in bacheca avevamo 7 coppe con le orecchie. Un proprietario che sceglie subito di attorniarsi di yes men licenziando in tronco chi, nel bene e nel male, si ostinava a pensare con la propria testa. Un proprietario che infine capisce che un’impresa di yes men e senza competenze non va da nessuna parte e allora prende un ex campione egocentrico e lo trasforma su due piedi nel suo plenipotenziario, tipo fare senatore un proprio cavallo, ebbene un Milan così strutturato manco ci è arrivato a comprendere che lasciare che la Serie A venisse via via trasformata in Marotta League era un errore strategico, e lasciare la strada spianata alla seconda stella ai cugini un errore storico se visto con l’occhio del vero patrimonio di una società di calcio: i tifosi.

Poco importa, in fondo, se la loro festa ci risuonerà nelle orecchie stasera, o la settimana successiva. Importa moltissimo che in società nessuno abbia compreso il peso di questa macchia e abbia fatto nulla per evitarla.

Non Scaroni, un presidente di cui non sappiamo che farcene – ma lo sa benissimo Elliott, per il quale è prezioso e non solo in chiave Milan.

Non Furlani, anche lui uomo di Elliott, zero leadership, probabilmente molto bravo come CFO (il ragioniere di una volta, per intenderci, uno che per il suo lavoro deve tacere e far di conto). Ma pessimo come amministratore delegato, uno che ha paura della sua ombra, che non si espone mai, che non ci mette mai la faccia, che non ha spina dorsale e che, quando parla, parla tanto per non dire niente. Vuoto pneumatico buono solo per giornalisti lecchini e tifosi addormentati o senza memoria.

Non Moncada, prima promosso a direttore sportivo e poi “silenziato” con l’apparizione di Zlatan, Zlatan che neppure appare nell’organigramma del Milan: una specie di dio da venerare, e ancora più da temere per chi fino a pochi mesi fa era un compagno, un dirigente, un allenatore. Una cosa mai vista, ch’io sappia.

E non Cardinale cui, non lo dico io, lo dicono i fatti, del Milan interessa solo una cosa: la massimizzazione dell’investimento. Del milanismo, dei nostri valori, del rispetto vero la nostra storia a lui non importa nulla. Non ha alcuna intenzione di fare la storia, e lo capisco: lui, investitore, è focalizzato solo sulla plusvalenza. Se così non fosse avrebbe optato per una squadra dirigenziale di competenti e avrebbe dato loro l’ordine di fare in modo che il Milan restasse la prima squadra di Milano, costi quel che costi, e non è detto che debba poi costare tanto, se si possiede visione strategica e capacità operativa. Invece abbiamo fatto il triplete al contrario, salutando ben quattro traguardi molto prima di intravvederli: ai gironi in Champions, a novembre in campionato, a gennaio in Coppa Italia e ai quarti in Europa League.

Le dichiarazioni della dirigenza sono state chiare. Il Milan è progettato per andare in Champions League e rivendere ogni anno qualche suo giocatore alle grandi d’Europa. Se poi si vince qualcosa hallelujah, ma poco importa: le rassicurazioni edulcorate, vuote, retoriche e falsette degli uffici relazioni esterne hanno convinto una percentuale bassissima di tifosi, trattati come azionisti – quando in realtà i soldi noi li tiriamo fuori, e il nostro dividendo di soddisfazioni è in passivo.

Alla fine, che adesso venga licenziato Pioli poco importa: il rischio concreto è che arrivi un altro allenatore buono per allenare una squadra mediocre progettata da una proprietà dove comanda Excel. Come tutti, anch’io leggo i nomi ma il punto non è il nome: il punto è che il Milan è progettato per restare “tra le prime” ma non LA prima.

E allora perché dovremmo dare i nostri soldi, il nostro tempo, le nostre emozioni ad una “cosa” che rifugge l’eccellenza per accontentarsi di un grigiore blasonato tipo Arsenal e Tottenham? Cosa sono diventati nostri colori? Cosa vuol dire ancora tifare il Milan? C’è qualcuno in società che abbia un cuore rossonero?

A ben vedere, il nostro vero dolore dovrebbe essere per questa mancanza, che ci porterà nei prossimi giorni a vedere cugini festanti e a sentire in lontananza i cori trionfali su canzoni di Ligabue e Tananai. Certo, un concerto di Ligabue e Tananai è qualcosa da cui fuggire a gambe levate il più lontano e in fretta possibile a prescindere, ma la mediocrità esistenziale di quella tifoseria non è un problema nostro – ne abbiamo in casa altri più importanti, e sarebbe ora di risolverli davvero.

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