(a cura di Antonio “Vannucco” Rampini)
Nella descrizione Junghiana degli archetipi, l’Eroe (o Guerriero, secondo differenti notazioni) rappresenta il “genitore normativo”. È il leader, simboleggia l’integrità, è colui che fissa mete (ad esempio l’area avversaria) e le raggiunge, in un ideale coast-to-coast. Dimostra il proprio valore per il tramite di atti generosi e nobili.
È strano che il genitore normativo (ovvero chi, in una relazione adulta, ci richiama alle regole condivise dal gruppo) possa essere rappresentato da un ragazzo che i genitori li ha persi da giovanissimo. E rischia (TUTTI NOI abbiamo rischiato) addirittura di non arrivare al Milan – ma il destino vuole che solo il fratello Beppe superi il provino con la squadra di Milano dai colori tristi. È molto più che un segno.
Prova e riprova eccolo perciò al Milan, gracile fisicamente come ce lo immaginiamo, ma forte e resistente d’animo come un Eroe in pectore. Il regista Werner Herzog, esperto di eroi che non intendono arrendersi soprattutto quando la sfida che li attende è più grande di loro (Aguirre il Furore di Dio, Grido di Pietra, Fitzcarraldo), ha sorpreso molti intellettuali quando ha rivelato di aver seguito per anni la carriera del nostro Franz. «Non c’è stato mai nessun altro giocatore che ha capito così bene, fisicamente, lo spazio. Riusciva a leggere il gioco, quando la palla era altrove riusciva a capire quello che sarebbe successo Mi piacerebbe davvero, nel fare i miei film, essere uno che riesce a capire il cuore dell’uomo e i grandi spazi del mondo nello stesso modo in cui Baresi ha capito il gioco».
A volte viene da pensare che il prezzo da pagare per questa capacità unica di capire il gioco e gli uomini in campo sia stato pagato con una certa difficoltà nel capirli fuori dal campo.
A 17 anni debutta nel Milan, e già dall’anno successivo Liedholm lo schiera titolare nella squadra della Stella, costringendo l’ottimo “libero” Ramon Turone a “liberare” lo spogliatoio e cercare il proprio posto nella Storia altrove (e se conoscete la Storia, sapete che ci riuscirà).
Come prescrive il modello di Eroe junghiano, nel suo percorso di formazione cresce acquisendo la forza e la potenza di tutti gli altri archetipi. Appena maggiorenne, Franchino non si fa problemi a governare la difesa. Partita dopo partita si rivela un’iradiddio di indole gentile, un Eroe che junghianamente impatta sul mondo, per migliorarlo a favore di tutti noi rossoneri. Diventa il simbolo della crescita individuale di tutta la squadra e tutta la tifoseria: per Carlo Pellegatti è il Mahatma, la Grande Anima Rossonera. I suoi contrasti sono sempre ferini, in campo riesce a motivare i compagni, esprimendo grande determinazione e fiducia. Dimostra a tutti noi la sua integrità nel momento più duro, affrontando da Capitano la serie B incurante delle lusinghe delle sirene agnellesche.
Di norma, l’Eroe-archetipo abbandona il mondo conosciuto per esplorare nuove realtà, scoprire nuove potenzialità, vivere nuove sfide, rinascendo (idealmente) in questa evoluzione verso orizzonti inesplorati. Quello dell’Eroe è un viaggio nel cambiamento, tra morte (simbolica) e rinascita: dalla retrocessione alla Coppa dei Campioni, cui guida i rossoneri a Barcellona, la ricompensa più grande; i differenti stadi (ehm) di crescita interiore e spinta creativa, attraverso cui si forgia il carattere dell’Eroe, si associano perfettamente alla figura e alla vita (e carriera) di Capitan Baresi.
La prima fase di questo viaggio nella trasformazione (da ragazzino, a Piscinin, a Capitano e Leader) è legata all’archetipo dell’Innocente, che può essere simboleggiato dalla sicurezza della vita familiare, uno spazio che usualmente è protetto – ma per il giovane Baresi, lo sappiamo, non è così.
Vengono a mancare i genitori e inizia (purtroppo per Franco non solo simbolicamente) il suo essere Orfano, fase archetipica in cui si lasciano alle spalle i vecchi punti di riferimento.
E la perdita di certezze può portare a confusione e paura, al caos. Bisogna essere forti per volgere in positivo la situazione, integrandosi in una nuova realtà.
Non stupisce che il Milan diventi allora la seconda pelle del timido Baresi e probabilmente la sua vera Casa: timido fuori dal campo, in campo Piscinin ma in campo non si fa problemi a redarguire un altro archetipo: il Mago Gianni Rivera. Questi, che in carriera non si è mai negato scontri con giocatori di carattere, non si fa alcun problema, e come Merlino con Artù, lo prende sotto la sua ala protettrice e intercede per lui affinché nel Regno Milanista abbia il trattamento economico riservato a tutti i Cavalieri della Tavola Rotonda. I colori rossoneri vivranno un ideale passaggio di consegne con i due in campo, Orfano/Eroe in pectore e Mago a vincere insieme lo scudetto della Stella, con Rivera che gli passa idealmente il testimone, e Franco che inizia la fase della consapevolezza e della crescita, interiore ed esteriore, scoprendo anno dopo anno i suoi punti di forza e le debolezze.
Che l’Eroe non ci nasconde.
(…ho versato lacrime amare vedendolo piangere come un bambino dopo avere sbagliato il rigore, nel 1994, che gli / ci impediva di diventare campioni del mondo, 25 giorni dopo aver dato un menisco alla Patria)
Il leader non cela la propria vulnerabilità, anzi continua nel suo percorso di cambiamento, comunicando alla sua squadra i limiti da oltrepassare, le regole che si possono infrangere.
La crescita interiore, e sul campo, porta l’Orfano junghiano a mutare in Eroe, o Guerriero: un archetipo che viene associato a forza e carica vitale, al superamento di ostacoli e possibili fallimenti. Che ci sono, anche nel Milan naturalmente: anche se le vittorie (in Coppa e campionato) superano di gran lunga le sconfitte.
Da Capitano, è lui che affronta gli avversari e gli arbitri per opporsi all’ingiustizia. Come faceva il Mago, da detentore della conoscenza (calcistica). Franco Baresi eredita la capitaneria e la interpreta in altro modo: meno parole fuori dal campo, totale autorevolezza in campo. Se il Mago cerca la saggezza oltre la porta altrui, l’Eroe difende il suo popolo respingendo gli assalti nemici alla nostra porta.
Pur giocando in linea, si pone come ultimo baluardo a protezione della squadra. Franco è l’icona che fa salire i compagni, il posseduto che si butta nel pressing esasperato per recuperare il pallone (riuscendoci quasi sempre) e rovesciare l’azione: è il simbolo del coast-to-coast, spesso concluso con un tiro e a volte con assist o gol. Per gli immancabili detrattori – gente senza Eroi – è banalmente l’uomo che alza il braccio a chiamare il fuorigioco per fermare l’avanzata dell’avversario, ricordando ai compagni (e ai guardalinee pre-VAR) l’esistenza di una regola di gioco e di vita. Secondo i nemici, la sua autorità farà alzare più bandierine del dovuto; secondo i milanisti, non abbastanza – e comunque, il braccio alzato che ricordiamo meglio è quello dell’interista Klinsmann che nel 1989, subito dopo avergli spezzato il braccio sinistro con un calcio volante, alza il proprio braccio per chiedere fallo a favore dell’Inter (certe abitudini non sono arrivate con Mourinho). Baresi grida per il dolore ma dopo qualche minuto si rialza, si fa fasciare il braccio e gioca gli ultimi 10 minuti con una frattura. Questa storia sul “braccio di Baresi” gli interisti non la raccontano mai, fateci caso.
Ma con tutte e due le braccia, Franco Baresi alza le Coppe delle Vittorie, e non sono poche nella sua carriera: sei scudetti (incluso quello della Stella), tre Coppe Campioni, due Intercontinentali, tre Supercoppe europee, quattro Supercoppe italiane. Vanta con la sua difesa il record di partite consecutive senza sconfitte, cinquantotto, due interi anni in pratica. Campione del Mondo nel 1982 con l’Italia, vicecampione nel 1994, un terzo posto nel 1990.
Un esempio per tutti anche oggi, come Vicepresidente.
Si ritira nel 1997. La sua maglia numero 6 viene ritirata dal roster in suo onore. Nel 1999, anno fatidico del nostro centenario nonché della fine del Novecento, è stato eletto “Milanista del Secolo”, l’uomo più rappresentativo dei nostri primi 100 anni.
Discutere quale, tra i capitani che abbiamo avuto la fortuna di avere in oltre 120 anni, abbia posseduto più capacità come giocatore, più autorevolezza, più prestigio, è un esercizio affascinante ma forse, a ben guardare, improprio, troppo legato ai ricordi personali (la maggior parte di noi può solo fare delle ipotesi, su come Nils Liedholm o Cesare Maldini abbiano interpretato tale carica): per chi scrive Franco Baresi è certamente il Capitano dei Capitani, ma forse il suo vero ruolo, quello che ci spinge come milanisti a cercare sempre un suo erede, è ancora più elevato. È quello di Anima, quello di Eroe.