FOREVER JUNG (Archetipi Milanisti) – Episodio XI: L’ANGELO CUSTODE

(a cura di Antonio “il Vannucco” Rampini)

Nella teoria junghiana degli Archetipi, quello dell’Angelo Custode risulta particolare, visto che incarna il genitore che si prende cura dei figli, la Madre che ci fa sentire amati, protetti, coccolati, che si prende cura del nostro Bambino Interiore, della nostra innocenza. E chi meglio di due simboli assoluti del milanismo, componenti la nostra “Dinasty” rossonera, Cesare e Paolo Maldini, chi altri potrebbe simbolicamente meglio rappresentare gli Angeli Custodi chiamati per generazioni a vegliare e proteggere la Squadra e noi Tifosi? Nessuno meglio di loro, no. Di padre in figlio.
 
CESARE MALDINI ha costruito la sua vita (e carriera) nel Milan, partendo dalla Triestina di Nereo Rocco arrivando a Milano nel 1954, in perfetto orario per vincere il quinto titolo rossonero. Pur essendo molto giovane, Maldini diventa leader della difesa del Milan (una frase di cui potremmo fare il “copia e incolla” decenni dopo, col figlio), vincendo scudetti, giocando la prima finale di Coppa Campioni che vede protagonista una squadra italiana (purtroppo persa nel 1958 col Real Madrid) e alzando la prima Coppa di una squadra italiana nel 1963.
 
Emblema, capitano e icona della squadra, Cesare è un esempio (anche junghiano) per incoraggiare il clima di positività e sacrificio reciproco fra i compagni di squadra, per creare quel clima che negli anni diventerà naturale, un ambiente dove ci si sente a proprio agio, liberi di esprimersi con vittorie e sincerità. Anche se ogni tanto l’esuberanza e la troppa sicurezza lo porta a strafare (si ricordano in campo le sue “maldinate”, alle quali pare fosse molto più propenso del figlio).
 
Finito il ciclo al Milan e appese le scarpette, Cesare da allenatore torna e vince ancora, Coppe (Coppa Italia e Coppa delle Coppe) ma non campionati: il 1973 è l’anno della Fatal Verona, in cui qualcosa di non troppo (Lo) Bello accade al Bentegodi. Cesarone tornerà ancora in rossonero nel 1999, dopo una lunga parentesi in nazionale, in particolare con un Mondiale vinto da “secondo” di Bearzot, e leggendari successi in Europa con la Under 21. Uscito dai Mondiali ai rigori contro i futuri vincitori (destino di diversi ct di alto rango) torna al Milan come capo degli osservatori ma deve poi tutelarne gioco, squadra e tifosi, quando viene chiamato come allenatore della prima squadra per raddrizzare un campionato “non entusiasmante” – eufemismo – dopo l’esonero di Zaccheroni.
 
D’altronde l’Angelo Custode è simbolo dell’amore disinteressato, del genitore premuroso attento alla crescita del figlio (e al Milan questo avviene anche letteralmente), di chi mette a disposizione la sua esperienza per far spiccare il volo a chi è protetto dalle sue ali. Cesare c’è, sempre.
Di quel Milan in difficoltà torna in mente Sheva schierato ala tornante, a coprire la fascia in senso prettamente difensivo (“abbiamo bisogno di sicurezze”, diceva alla stampa il nostro Angelo Custode), e soprattutto una serata di magie, 11 maggio 2001, quella data non la scorda più nessuno, la peggior sconfitta casalinga della seconda squadra di Milano, un 6-0 catartico, assoluto, definitivo, un Milan che da Cesare impara a ri-volersi bene, ad affrontare (da squadra tornata sana) la vita e il campionato.
 
Tra le metafore junghiane legate all’Angelo Custode, ci piace quella dell’Albero della Vita: nel corso del tempo e soprattutto nelle avversità il fusto dell’albero ci nutre e sostiene. E le radici dei Maldini affondano nel nostro inconscio di milanisti, in un senso di grande famiglia che fa gruppo, gioca, e raggiunge risultati clamorosi. Di generazione in generazione, da Maldini a Maldini, da padre a figlio con lo spirito (per noi, santo. Ma non vorremmo risultare blasfemi) del milanismo che resta sempre presente: classe, sacrificio e disponibilità la costante. Entrambi difensori (della porta e dei nostri valori), entrambi a sollevare da capitano della stessa squadra, il Milan, la Coppa dei Campioni. Un unicum nella storia del calcio.
Cesare ha fatto in tempo ad allenare sia nel Milan che in nazionale Paolo, forse il terzino sinistro più forte della storia del calcio. Una definizione abusata questa, “la storia del calcio”. Ma i Maldini l’hanno fatta, la storia, in assoluto.
 
Pur essendo il difensore italiano più conosciuto in tutto il mondo, la storia di PAOLO MALDINI, nazionale esclusa, è rigorosamente rossonera. In una carriera lunghissima, non avrà mai altra maglia, iniziando da giovanissimo nel Milan di un’altra nostra icona, Nils Liedholm (l’Archetipo del Saggio) per affermarsi in breve sull’ala sinistra, un altro Angelo sull’ala del campo. A fine carriera totalizzerà 902 partite ufficiali disputate, tra campionato e coppe varie. Un predestinato, fin dal debutto a sinistra lui che era destro naturale, doti atletiche immense, doti tecniche addirittura superiori a quelle fisiche, feroce nei contrasti, eccellente nel gioco aereo, una predisposizione naturale al tackle acrobatico e al recupero in scivolata, frutto del suo tempismo fuori misura.
 
Paolo nei tre decenni passati in campo si erge a monumento milanista persino superiore al padre, è l’arma segreta della difesa degli Intoccabili anche per la sua propensione al gol (nel 1990/91 è il miglior marcatore del Milan alle spalle degli attaccanti Van Basten, Gullit e Massaro) e darà un contributo enorme al ciclo di 58 partite consecutive senza sconfitte. E quando nel 1994 contro il Barcellona per l’assenza dell’Archetipo dell’Eroe Franco Baresi deve adattarsi a giocare da centrale insieme a Filippo Galli fronteggiando la coppia di attaccanti più temuta dell’epoca, Stoichkov e Romario, inizia una nuova carriera che lo porterà a essere ANCHE uno dei centrali difensivi più forti del mondo. In campo è un capitano più impetuoso e d’assalto rispetto al Mahatma Baresi. Non dissuade gli avversari nella nostra metà campo, e non supporta i compagni stando solo alle loro spalle, ma si spinge spesso in avanti per crossare o segnare – e come Angelo Custode non accetta che gli avversari non rispettino i nostri colori, come testimoniano numerose, storiche immagini di confronti a muso duro con titolati nemici. Nel 2005 solo un destino baro e malevolo gli nega un Pallone d’Oro che sembra in tasca nel momento in cui segna in finale contro il Liverpool. Con tutta la squadra cade a Istanbul, ma risorge ad Atene.
 
Dopo di che, l’Angelo Custode deve ritirarsi dal campo – con sette Scudetti sul campo, una Coppa Italia, cinque Coppe Campioni (disputando ben otto finali, un record), cinque Supercoppe europee e cinque Supercoppe italiane, due Coppe Intercontinentali e una Coppa del Mondo per Club. Con il suo ritiro vengono definitivamente alla luce alcuni contrasti con i tifosi milanisti, più specificamente la curva. Come in un rito di passaggio, i giovani contestano l’Angelo, non ritengono necessaria la sua ala protettiva. Gli Angeli però, come insegnano le Scritture, sono anche creature da battaglia, e anche se lavorano per il Diavolo, non amano i compromessi. Sono creature che hanno frequentato il Dio della Bibbia più che il Cristo del Vangelo, e non porgono l’altra guancia: trovano blasfemo che il Milan sia accusato dai milanisti stessi di non essersi impegnato a Istanbul. Quella guerra santa non verrà mai sanata, nemmeno due anni dopo quando ad Atene alzerà di nuovo la Coppa.
 
Nel suo ruolo di Angelo Custode, Paolo Maldini non concepisce che qualcuno sospetti un tradimento della Fede: nella sua visione, il milanista deve volere e volersi bene senza discutere la sua missione protettiva (“illumina, custodisci, reggi e governa me”, dice la preghiera cattolica). Ma la psicanalisi ci insegna che l’Angelo Custode, come i genitori, è una figura che è più esposta di altre al dubbio.
Qualcuno, aizzato dai farisei dei media, dubita anche del suo sfogo contro una dirigenza che dimenticando i sacri principi ha finito per precipitare il Milan nella Banter Era. Gli ci vorranno anni per tornare al Milan da dirigente, e tornare a rappresentare l’Albero della Vita rossonera, nutrimento per il milanismo sofferente – mettendo sotto contratto alcuni dei protagonisti del Milan di oggi e ottenendo in breve tempo un insperato ritorno allo scudetto. Qui ci fermiamo, perché il discorso, come spesso succede quando si parla di religioni, rischia di estremizzarsi e fomentare i discepoli contro gli iconoclasti. Restiamo nella metafora: il Diavolo, che è di suo un ex Angelo, riserva la stessa sorte all’Angelo Custode del Milan, allontanandolo dalla Casa del Padre (non è blasfemia: lo era davvero). Un altro rito di passaggio per tutti noi? Un sacrificio per completare la rinascita? Non sapremmo dire! Perché naturalmente il nostro è un gioco da innamorati, non lo possiamo rovinare prendendoci troppo sul serio come in tante discussioni sul pallone. Ma resta importante sapere chi siamo, e perché lo siamo. Sappiamo cosa sono stati i Maldini. In ogni caso sappiamo anche che il Milan continua, e che il nostro amore per i nostri simboli è parte di un amore più grande.

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