FOREVER JUNG: Archetipi Milanisti. Capitolo XII: L’Orfano

(a cura di Antonio “il Vannucco” Rampini)

Come si conclude la strada della crescita della nostra coscienza di milanisti? Con il tifoso milanista che si ritrova a fare a meno di simboli, e deve iniziare a cercare il milanismo in se stesso.
Ed ecco allora che l’ultimo archetipo di Jung siamo proprio noi. Tutti noi tifosi del Milan.
 
Junghianamente L’Orfano è il bambino interiore abbandonato. Costretto a fare i conti con le sue esperienze e superare le sue sofferenze.
Del resto, malgrado le molte gioie – forse nel complesso superiori (anche qualitativamente…) a quelle provate da altre tifoserie italiane – in molti casi il tifoso milanista ha dovuto farsi una ragione di tante delusioni.
Per esempio, quando nel Milan degli anni fatati, del dopo-Sacchi, si ritirarono gli Eroi più grandi. Il Capitano Franco Baresi, il Cigno Marco Van Basten, penso anche all’Altro Capitano Paolo Maldini. Ci siamo sentiti Orfani di un mondo di vittorie, privati degli alfieri che alzavano al cielo il vessillo e l’orgoglio rossonero.
Abbandonati anche dai sogni (di gloria) e dai miti (calcistici), traditi in seguito anche dalle figure su cui si faceva più affidamento (il Presidentissimo che vende ai cinesi, ad esempio)…
 
Per cui è così, è giusto affermare che siamo noi tifosi ad esserci spesso sentiti orfani della squadra, delle sue vittorie, rincoglioniti dagli imbonitori del mercato. E abbandonati anche dalle nostre figure di riferimento più importanti.
 
(a mia memoria, cominciò con Sheva, anche se soffrii parecchio, da ragazzino, al passaggio di Benetti a Torino, in cambio di Capello, che si sarebbe peraltro rivelato fondamentale alcuni anni dopo, da allenatore più che da giocatore).
Forse l’aver venduto Sheva si rivelò una grande intuizione, alla fine, visto il crollo avuto con il Chelsea di Mourinho. Ma il punto era un altro: il Milan di Berlusconi non vendeva. Mai.Fino ad allora. Sheva fu il primo, a Londra, cessione mascherata da scelta di vita – a dimostrare che i soldi contavano (e anche i costi aumentavano).
Poi fu la volta di Kakà, con Riccardino che dapprima resiste (forzato a gran voce dai tifosi) alle offerte del Manchester City, salvo accasarsi l’anno successivo a Madrid. E forse anche questa si rivelò una grande intuizione, alla fine. Ma la sofferenza non fu poca. E poi, comunque, come vennero impiegati i soldi di Kakà? Non certo per comprare Huntelaar e Onyewu, “colpi” di quell’estate. Tutti nelle casse di famiglia, sotto pressione di Marina e Piersilvio – oppure, usati per finanziare “cene eleganti”, in quel periodo principale preoccupazione del Presidentissimo. Anni comunque buttati, senza stelle tra un Milan vincente e l’ultimo che arrancava.
 
Noi tifosi ci siamo temprati nella tempesta di quegli anni. Abbiamo sviluppato (junghianamente) la capacità di collaborare tra monadi tra loro autonome e in autonomia (dai media), sviluppando tecniche di sopravvivenza da vietcong, unite alla volontà di non abbattersi quando ce ne sarebbe stato ogni motivo. Allo stadio, per dire, si soffriva di meno, visto che allo stadio ci assiste la coscienza collettiva rossonera: ecco allora la battuta scambiata con il vicino che non si conosce quando le cose non vanno (sperando comunque di poterlo abbracciare al più presto quando la squadra segnerà).
 
(personalmente mi sono formato anche alla scuola di Giussy Farina, a un Milan che esultava all’acquisto di giocatori non eccezionali, nella speranza che Blissett fosse meglio di Joe Jordan. Sono stato Orfano anche della Serie A, ora è di moda deridere chi c’era a Milan-Cavese, ma tutti i milanisti di quel periodo, che fossero allo stadio o no per quella partita, condividevano l’amore incondizionato e la voglia di un popolo intero che voleva tornare in alto. Ero a San Siro per il colpo di testa di Attila nel famoso derby del 2-1, e per il Mundialito che vide Cruyff indossare per l’unica occasione il rossonero. Dopo la B ricordo anche un derby di Coppa Italia con 80.000 presenze, per dimostrare alla seconda squadra di Milano che eravamo tornati)
 
Perché tutti ci rammentiamo della Cavalcata delle Valchirie. Elicotteri, acquisti, Silvio e Galliani, Coppe e campionati, il Milan che faceva il raider sui mercati. Eravamo noi il Manchester, il Real, l’Arabia.
Ma ci siamo comunque sentiti orfani dopo lo scudetto del 2011, quando capimmo, con Ibra e Thiago che andavano a Parigi e Pirlo che non veniva confermato, che si annunciavano tempi cupissimi. Ricordo le cassettine per la raccolta delle monetine “da girare al Milan”, geniale modalità per esorcizzare con l’ironia lo scoramento.
Orfani di un sogno, situazione che si è protratta per tanto, troppo tempo. Fino al ritorno di un’icona ritiratasi in campo (Paolo Maldini) e tornata protagonista come dirigente.
 
Ma come si guarisce interiormente, secondo Jung?
 
Il tifoso negli anni ha accettato obtorto collo la situazione. Si è responsabilizzato, arrivando a credere nella forza dei Colori, nella maglia, ma anche in se stesso, nella propria Comunità (degli stessi tifosi) che vive accanto e in parallelo (non a prescindere, ovviamente, ma costituendone un forte polo attrattivo) alla storia della squadra.
Per questo il Caso Maldini e subito dopo quello Tonali hanno fatto così male
(…sicuramente ne hanno fatto al Vannucco tifoso e penso a tanti di noi – e questo, pensando a Sandro, al di là della forza del giocatore, al di là del suo essere milanista e potenziale “simbolo Archetipico” per i nuovi articoli di Forever Jung che saranno scritti, chissà, tra qualche decennio).
Il tifoso si è sentito privato delle certezze riconquistate nel dopo-Berlusconi e nel dopo-Cina, quelle sicurezze che vedevano Maldini a garante, nella ri-costruzione di un Milan vittorioso.
 
Eppure.
 
Il tutto è durato solo qualche giorno. La eccellente campagna acquisti di questa sessione di mercato (ne abbiamo avuto riprova nelle prime giornate) unitamente alla serena tranquillità di un figlio giovine e milanista, che soddisfatto vive negli ultimi anni un Milan tornato a giocarsela con tutti, mi ha ricordato che siamo noi tifosi a doverci assumere la responsabilità della nostra sofferenza. Senza sentirci abbandonati. Anche perché alla fine siamo in tanti. E ognuno trova qualcuno con cui dire: “Comunque, Milan”.
Morale (più o meno archetipica): soffriamo meno, continuiamo a tifare il Milan o magari tifiamolo addirittura di più. Stringiamoci forte, e stiamo più vicino.
E chi non salta…
FINE

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