(a cura di Antonio “il Vannucco” Rampini)
Continuiamo nell’analisi degli Archetipi milanisti, i simboli che junghianamente ci hanno avvicinato, sedotto e (abbandonato? ma solo per qualche anno) e insomma hanno contribuito a formare il nostro inconscio di milanisti.
Siamo arrivati al Ribelle, o Distruttore (o ancora il Fuorilegge, secondo diverse notazioni o traduzioni). Il Ribelle è un trasgressore: pensa con la propria testa, vuole sconvolgere lo status quo (anche nel mondo del calcio: si oppone all’ordine costituito) e mette tutto se stesso per riuscirci. Arriva a cambiare una squadra, per renderla vincente, con le sue galoppate e le esplosioni senza senso in campo, che tramortiscono spettatori, campo, legni e interisti – Riccardo Ferri impaurito dal suo arrivo segna un autogol nel derby di fine anno, Zenga atterrito da una sua conclusione si protegge la faccia e prende gol (poi come sempre corre dal guardalinee a chiedere falli, fuorigiochi, interventi della Federcalcio).
Il fuorilegge Ruud Gullit è forse il giocatore che insieme a Kakà risulterà più determinante per cambiare, piegare e forgiare non appena giunto in rossonero il destino di una squadra. Alla vittoria.
Arriva al Milan perché Silvio Berlusconi si innamora di lui vedendolo giocare a Barcellona (Trofeo Gamper) nel PSV e tra l’altro in un ruolo completamente diverso, il libero con facoltà di spaziare ovunque, a piacimento. Già in quegli anni dava prova della propria potenza, che si concretizzerà con il passaggio in rossonero agli ordini del Creatore Arrigo Sacchi. Quel Milan è costruito per godere della presenza e della forza di due fenomeni olandesi: a Gullit si aggiunge Marco Van Basten, che lo completa: non potente ma elegante, non esuberante ma riservato. L’altro tulipano si fa male praticamente subito, tornerà in squadra solo per le ciliegine di fine anno. Per la torta dobbiamo rivolgerci a Ruud.
Che paradossalmente all’arrivo a Milanello crea subito scandalo confessando di non riconoscere il Mago con la 10 (Gianni Rivera) nelle foto esposte. A queste parole da Distruttore, l’incantesimo del Mago si rompe, e proprio Gullit sarà il secondo milanista a vincere il Pallone d’Oro dopo Rivera.
In campo Gullit esterna junghianamente il suo stato interiore: sprizza energia, gioia, dinamismo: trascina non solo la squadra, ma anche il pubblico, che lo adotta e lo segue. Nel suo primo anno con noi è tutto e di più, centravanti, ala, centrocampista, leader in campo e fuori. Alla fine le sue presenze saranno 29 (su 30: salta una partita per squalifica) con nove gol segnati.
Saranno migliaia i cappellini con le sue treccine venduti e indossati allo stadio, per festeggiare il campione solare e le sue e nostre vittorie: a Milano, grazie a Gullit, il calcio inizia a diventare marketing, ma in modo spontaneo, non è la società a produrre i famosi cappelli coi capelli. Il popolo ha riconosciuto in lui il ribelle junghiano, che porta al Milan uno stato di rivoluzione permanente. Non solo calcistica.
Non si era mai visto un campione dello sport dedicare le sue vittorie a Nelson Mandela (all’epoca in carcere in Sud Africa), una decisione che la stampa italiana valutò come politica (“Non è politica,” dice Gullit all’epoca, “è stata una decisione umana”). Dedica poi a Mandela una canzone sull’apartheid, perché Ruud è incontenibile anche fuori dal campo (come ricordano bene alcune madame milanesi e non solo – tra queste una giornalista in forza all’antiberlusconiano quotidiano La Repubblica). Con la sua band reggae, i Revelation Time dedica una canzone al protagonista della lotta contro l’apartheid e contribuisce a far parlare dell’argomento increscioso. Andrà a trovare Mandela nel 2004, e Nelson gli dice che se adesso poteva contare su tanta solidarietà, all’epoca Ruud era uno dei pochi che potesse chiamare amico.
Tra il 1987 e il 1988 Ruud sprona il Milan a ribellarsi, non solo in senso junghiano, alle squadre che negli anni precedenti l’avevano battuto. L’inizio di campionato non è facile, il Milan stenta ed esce quasi subito dalla Coppa Uefa, qualcuno parla di un Sacchi che non mangerà il panettone. Ma la musica cambia. Anche per lui.
Giocatore totale, senza un vero ruolo tradizionale, mostruoso (d’altronde il Ribelle sa di essere monstrum, entità portentosa per antonomasia), Gullit non lo è solo per doti tecniche e di corsa: il presidente del Pisa Romeo Anconetani, dopo averlo visto nudo negli spogliatoi, dice che è “un mostro in tutto”. E se la grande paura, junghianamente, di un Ribelle è il poter essere inefficace e impotente, beh, lui questa paura pensiamo non l’abbia mai provata. È negli annales del milanismo la sua risposta “ribelle” a Silvio Berlusconi, che (…da che pulpito) aveva chiesto a tutta la squadra trenta giorni di astinenza prima della finale di Coppa dei Campioni: “Dottore io con le palle piene non riesco a correre”. Né aveva paura a guidare la squadra in campo con il suo carisma e la sua personalità. Dopo pochi mesi, l’Italia è così impressionata che ci si chiede se sia forte quanto Maradona. George Best interviene a stroncare il dibattito: secondo lui, Gullit è più forte. Alla fine del 1987, viene festeggiato Pallone d’Oro come miglior giocatore in Europa, primo vincitore non italiano nella storia del Milan.
Ruud festeggia ma non si ferma: subito dopo Capodanno arriva lo scontro cruciale proprio col Napoli di Maradona Campione d’Italia, in vantaggio di 5 punti in classifica. Sacchi racconterà che si presentò con i coriandoli ancora nei capelli. Ma con l’energia del leone guida la carica rossonera contro il Napoli: un gol, un assist, un palo, una presenza ovunque in campo nel 4-1 di San Siro. Un avversario commenta: “Abbiamo provato a picchiarlo, ma ci facevamo male noi”. Ed è sempre lui a segnare di testa, di pura strapotenza, il gol che nel gennaio 1988 ci fa battere anche la Juventus a Torino.
La serie delle prestazioni si allunga, come si moltiplicano anche i suoi gol, Como, Cesena, Pescara, poi nel derby di ritorno (il cosiddetto gol spaccaporta, di sinistro).
Quel Milan sarà poi corsaro a Napoli con Van Basten che è rientrato per il gran finale (e le ciliegine) per andare a fregiarsi, meritatamente, del titolo di Campione d’Italia.
La carica del Ribelle non si ferma: in nazionale, Gullit guida gli Orange alla conquista del loro primo titolo, ma la squadra olandese diventa rullo compressore solo dopo che un confronto interno con Michels porta il selezionatore a schierare la nazionale con il duo milanista in avanti.
L’anno successivo il Milan ha aggiunto un terzo straniero alla squadra, sempre olandese: Frank Rijkaard. L’obiettivo è la Coppa dei Campioni, e il primo snodo fondamentale è la partita con la Stella Rossa di Belgrado. Una squadra forte, che schiera due giocatori come Stankovic e il Genio Savicevic, che a San Siro sorprende tutti. La qualificazione sarà decisa a Belgrado, nello stadio Marakanà strapieno, dove il Milan deve vincere.
Ruud è infortunato, e viene recuperato (“hai solo quaranta minuti di autonomia”, sentenziano i fisioterapisti) per il replay della famosa partita della nebbia, quella in cui nessuno si accorge dell’espulsione di Virdis. Il giorno dopo si vede invece molto bene, tranne la terna arbitrale, sempre annebbiata: a Van Basten viene annullato un gol con la palla entrata di almeno un metro, e Donadoni rischia di morire per una gomitata che gli rompe la mascella, con la caduta che gli fa perdere i sensi mentre ingoia la lingua e rischia di soffocare.
Il Milan, scosso, risorge con grande umiltà, ricorda Ruud, dopo avere ascoltato dallo speaker dello stadio che Donadoni non è più in pericolo di vita. Il pubblico fischia alla notizia. Gullit trasmette la sua forza di ribelle alla squadra, che domina la partita, anche se riuscirà a prevalere solo ai rigori. La squadra ha capito che il dolore va accettato e non si può imparare a vivere, e a vincere, senza prima avere imparato a morire (metaforicamente, per fortuna).
Risorto a Belgrado, il Milan prende la rincorsa. Resiste alla pressione del Werder Brema nei quarti e sfida il Real Madrid in semifinale, due partite che a posteriori sanno di passaggio di consegne. E che lo vedono devastante, contro avversari che negli spogliatoi litigano tra loro “Vuoi provare a marcarlo tu?”. A San Siro segna di testa il gol del 3-0 nella cinquina rossonera dopo che a Madrid gli viene annullato inspiegabilmente un gol validissimo: forse l’establishment difendeva le sue regole, che Il Ribelle junghiano vuole sconvolgere. Ruud poi dirà che aveva “la sensazione che il mondo fosse contro di noi. Siamo rimasti zitti e abbiamo lavorato ancora di più. Se guardi la squadra negli occhi prima della partita vedi che vuole vincere. Se vinci 5-0 col Real Madrid è un segno. Non abbiamo vinto per fortuna, e nessuno ci ha regalato niente”.
Presentando la partita Gianni Brera su Repubblica scrive che sarebbe stato meglio rispettare i rumeni, maestri del palleggio, aspettandoli e colpendoli in contropiede. Durante la riunione tecnica Arrigo legge il pezzo di Brera chiedendo a tutti se sono d’accordo. Gullit, archetipo Ribelle del Milan di Sacchi, ha interiorizzato la rivoluzione del Creatore e prende la parola: “No. Ora usciamo e li attacchiamo dal primo minuto all’ultimo”.
Nella finale con la Steaua, segna una doppietta e si batte le mani sul petto dopo averle levate al cielo e poi le porta al viso, incredulo, come a dire “Sono io, sono io”. Il Milan è diventato il simbolo del calcio, e Gullit è l’icona di quel Milan. Lo pensava anche Arrigo Sacchi, che intervistato concordava sul fatto che Gullit potesse “essere considerato il simbolo del mio Milan. Aveva una grande potenza dal punto di vista fisico e sapeva anche essere un punto di riferimento per i compagni. Quando partiva in progressione si portava via anche il vento”. “Gullit è come cervo che esce di foresta”, dirà Vujadin Boskov confermando la necessità di paragonarlo a qualcosa che ha più a che fare con la Natura che col calcio.
Ma l’anno successivo lo sforzo del biennio precedente presenta il conto: Ruud resterà fuori per quasi tutta la stagione per un infortunio al ginocchio. Il campionato è quello della monetina contro Alemão a Bergamo, e della seconda “fatal Verona”, finita con l’espulsione di mezzo Milan determinata da un arbitraggio probabilmente attento a una più geografica distribuzione delle vittorie. In Coppa dei Campioni però il Milan bissa il successo dell’anno prima: sarà l’ultima squadra a stare sul trono europeo per due anni di fila. Ruud rientra in tempo per la vittoria di Vienna contro il Benfica. E il Milan si laurea anche campione del Mondo per Club, vincendo due volte di seguito la Coppa Intercontinentale. Ma l’epopea del Creatore Sacchi è alla fine: si spengono le luci di Marsiglia, e si spegne anche la luce della sua creazione. La sua panchina viene ereditata da Fabio Capello, che non crea: amministra. Per alcuni giocatori (come Van Basten e Massaro) è l’ideale, ma Gullit è troppo Fuorilegge per il nuovo tecnico, con il quale arriva allo scontro fisico negli spogliatoi. Il Milan degli Invincibili di Capello è più pratico ed essenziale e vince tre volte lo scudetto, ma in Coppa perde la finale di Monaco di Baviera con l’Olympique Marsiglia. Ruud non giocherà, in una partita ricordata per l’ultima apparizione di Marco Van Basten con la maglia rossonera, più che per il doping dichiarato (anni dopo) dai francesi. Nel 1993 Ruud Gullit si ribella anche al Milan e si trasferisce all’allegra Sampdoria di Vialli e Lombardo. Poi tornerà, poi tornerà a Genova prima di emigrare al Chelsea. In fondo aveva esaurito la sua missione al Milan, era già nel Pantheon da tempo.
Un Fuorilegge senza ruolo, che trascini la squadra alla rivolta è difficile da trovare, e Gullit rappresenta certamente al meglio un tipo junghiano che da sempre i tifosi milanisti imparano a individuare e apprezzare, magari anche solo per una stagione come Boateng, ma in tempi più recenti Theo Hernandez e Leao hanno mostrato, sul campo, alcune delle caratteristiche del Ribelle. Con tutto il rispetto per Pioli, sarebbe interessante vederli scatenati da un Creatore come Sacchi. Ma forse diventeranno Archetipi diversi: lo scopriremo con piacere.