LA SINDROME DELLA PERNICE

(di Leonardo Pinto)

LA SINDROME DELLA PERNICE
Un giorno il re di Francia Enrico IV fu rimproverato dal suo confessore per le infedeltà. Il giorno dopo, a pranzo, il re fece cucinare per entrambi una deliziosa pernice.
La sera dopo, pure.
E anche il giorno dopo. E due giorni dopo. E dopo.
Il quinto giorno, il prete sbottò: “Toujours perdrix!”, sempre pernice!!!
Il re allargò le braccia: “Toujours reine”. Ovvero: sempre regina.
Speravamo che il Milan si giocasse le semifinali di Champions League. Ma che se le giocasse DAVVERO, che i nostri fossero consapevoli in ogni minuto che ci sono squadre e giocatori molto forti che non ci arrivano mai, a un passo dalla finale, ed è un treno che non passa spesso.
Per qualche minuto nel primo tempo abbiamo avuto questa fioca speranza. Un po’ come all’andata era successo per qualche minuto nel secondo tempo.
Ma più di quella speranza o illusione non abbiamo avuto.
Qui, il punto non è tanto stabilire se la stagione è un fallimento o no. Quello è una specie di divertimento, tipo i sondaggi inutili sui social: “RT se pensi che il clima stia cambiando, like se pensi che sia tutto normale e gli ambientalisti non devono rompere le palle”.
No, a mio parere il punto è: il Milan gioca a pallone? Il Piolismo esiste ancora? Questa squadra ha una identità?
Se ne sei completamente privo, il calcio finisce col punirti – e premiare squadre sulla carta molto inferiori a te, dal Torino di Cairo (in 10) alla Cremonese (mai battuta), dallo Spezia all’Udinese. L’Inter non ha perso per caso 11 partite quest’anno, e il genio sulla loro panchina non ha un cervello così sovrumano da averle perse apposta. Però evidentemente, vista anche la quantità di coppette finora portate a casa a fronte di zero scudetti (finora), la sua squadra “sente” la partita importante, e la interpreta di conseguenza.
Questa cosa il Milan l’ha avuta l’anno scorso, quando c’era un solo modo di vincere lo scudetto, avete presente quel fastidioso modo di dire “Da qui in poi sono tutte finali”.
E forse l’ha avuta quest’anno contro il Tottenham e il Napoli, quando venendo eliminato nessuno avrebbe detto che era uscito contro una “squadra più debole” (sì, perché adesso è facile sminuire il Tottenham, ma nessuno a inizio stagione sarebbe stato felice di trovarsi di fronte una squadra inglese (nostro tabù da un pezzo) e una squadra di Antonio Conte, fino a pochi mesi prima allenatore campione d’Italia e oggetto del desiderio di molti milanisti.
Ma il Milan è diventato come l’Italia. Nel senso che tutte le volte che gli avversari sembravano alla portata, il Milan si è comportato come tante volte ha fatto l’Italia, nel senso della Nazionale. Capace di superare il Brasile e la Germania del 1982, ma poi di tornare all’anonimato nel giro di un anno. Oppure, se volete un esempio più recente, la squadra di Lippi che nel 2006 pareggiò con gli USA, superò l’Australia al 95° con un valoroso rigore di Totti, per poi esaltarsi contro Germania e Francia (anche se con recita magistrale del patrono dei chiagne-e-fotters, Materazzi).
Così, da non favorito ti guadagni due semifinali di Champions League. Legittimamente, checché ne dicano alcuni isterici tifosi di un’altra squadra. E qual è stato l’approccio? Il Milan è sceso in campo come fossero partite di campionato con l’Udinese o lo Spezia. E giustamente, come in quei casi, le ha prese. Questa stagione ci ha fatto il discutibile regalo di cinque derby: in uno abbiamo giocato a pallone. E vinto, come nel derby della stagione precedente. Negli altri quattro, poco o nulla. Quasi a dire: “Che palle, ancora loro. Va beh, basta stare tranquilli, se poi anche vanno in vantaggio li riprendiamo e battiamo come con Giroud (2-1) o Leao (3-2).
Che sia subentrata una sindrome della pernice? Ovvero: un appagamento, la cui conseguenza è una scarsa propensione a dare tutto, a provarle tutte, sia in Pioli che nei giocatori – che no, non sono dei professionisti freddi e , sono gente che, ancorché strapagata, come sarete pronti a sottolineare, fa e dice scemenze in campo e fuori, come tutti, e come tutti i loro colleghi. Convinti di aver vinto un campionato e tante partite per superiorità regale, troppo spesso non si sono impegnati per dimostrarla.
Tonali è sempre il migliore, e non per caso. Prendendo due pali, è quello andato più vicino al gol con l’Inter e lo Spezia – per lui non fanno differenza – ed è quello che ha messo in condizione di segnare Messias all’andata e Brahim Diaz al ritorno. Tonali ha la voglia di chi per quella maglia si riduce lo stipendio. Gli altri, anche se dotati di maggior classe, si specchiano nelle proprie imprese dimenticando di avere ancora qualche limite. Nel caso di alcuni nostri titolari, poi, solo un impegno al 150% maschera i limiti. Scendere in campo al piccolo trotto cercando di eseguire il compitino e passando indietro al compagno per scaricare ogni responsabilità non fa che evidenziare i propri limiti, e quelli del compagno.
Sia chiaro, la stessa colpa è imputabile a Pioli e alla società AC Milan. Il primo, pur vedendo la situazione creatasi dopo il Mondiale, non ha mai realmente trovato un rimedio, sperando che le figuracce in difesa fossero finite col ritorno di Maignan. Ma soprattutto, non sperimentando niente per rimediare alla sterilità del nostro attacco. Per quanto Giroud e Leao siano acciaccati e fuori forma, e Origi e Rebic e Brahim Diaz siano inefficaci, un vero allenatore sa far segnare anche Wisniewski, Ibanez, Baschirotto, Adopo, se è quello che si ritrova in casa. Perché fai in modo di avere più occasioni e modi per segnare: comincia da quello, poi se tutti sbagliano gol fatti è un altro conto, ma i gol gettati alla Robinho non sembrano il nostro male attuale. Il problema è creare poco o nulla, avere sempre statistiche così deprimenti sui tiri in porta.
Il Milan dei famosi 20 rigori, forse è un dettaglio sfuggito ai più, era un Milan che evidentemente entrava spesso nell’area avversaria. Quel Milan correva, aggrediva, giocava in velocità (e no, non erano certo Kessié e Calhanoglu a farlo). Ora dà palla a Leao oppure butta la palla a caso alla ricerca di Giroud, e speriamo che il vecchio tra una sportellata e l’altra trovi la sponda giusta. Pioli ha aspettato mezz’ora del secondo tempo per cambiare qualcosa davanti: nessuno si aspettava molto ovviamente da Origi, però un allenatore che vuole andare in finale QUALCOSA DEVE FARE. Deschamps nella finale dei Mondiali, vedendosi sotterrato, ha giocato d’azzardo togliendo Giroud che lo aveva portato fin lì. Il calcio, strano quanto volete, gli ha dato (quasi) ragione.
A proposito di Giroud e Origi (e Ibrahimovic). La società Milan, Maldini e Massara e chiunque ci sia sopra di loro, ha chiaramente avuto (eufemismo!) poca fortuna nel mercato estivo. Poi però ha anche ignorato i problemi dell’attacco nel mercato di gennaio. Come alcuni dei nostri giocatori, si sono sentiti “a posto così”, come se avessimo vinto lo scudetto dell’anno scorso in discesa, e non lottando partita dopo partita, centimetro dopo centimetro. Ma quello è esattamente il momento in cui uno scudetto inizia a scucirsi, quando non hai la fame per mangiarti una deliziosa, ma ormai banale pernice.

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