Forever Jung: Archetipi milanisti. Capitolo X: l’Innamorato

/a cura di Antonio “il Vannucco” Rampini)

Continuiamo a esaminare gli archetipi rossoneri, ovvero (per dirla con Jung) le icone, i simboli del Milan che nel corso degli anni hanno fatto maturare la nostra coscienza e strutturato il nostro inconscio di milanisti.

Essere tifosi è un atto d’amore.
E l’amore per il Milan non è metaforico ma reale, concreto, osiamo dire anche erotico. Il gol a volte ricorda l’esplosione di un orgasmo, la vetta raggiunta dopo un’azione prolungata e bellissima, la sublimazione della nostra passione. Eduardo Galeano, grande scrittore sudamericano, aggiunge che la dolce malinconia che proviamo dopo avere fatto l’amore è la stessa che proviamo alla fine di una partita (vinta).
Galeano aggiungeva che, come per gli orgasmi, anche i gol sono sempre meno frequenti nella vita moderna. Beh, noi milanisti di lungo corso abbiamo passato un momento in cui non smettevamo (e non ci stancavamo mai) di amoreggiare con la nostra squadra, per vedere i gol dei nostri innamorati.
E se pensiamo all’Archetipo dell’Amante, alla cui base vi è appunto l’Eros, il legame appassionato e travolgente, empatico e assoluto – possiamo associarlo a due giocatori, non uno. Due storie d’Amore – perché lo sappiamo, nel calcio e nella vita gli innamoramenti possono essere molteplici. Marco Van Basten e Andrij Shevchenko sono stati simboli di due Milan che vincevano in modo diverso accomunati dai tanti gol e da una strana specie di malinconia.

A 18 anni Marco Van Basten inizia la sua carriera professionista debuttando nell’Ajax, tante vittorie e tanti gol (153 in 172 partite), una Coppa delle Coppe vinta nel 1987, anno in cui si trasferisce a Milano al Milan di Silvio Berlusconi e Arrigo Sacchi.
Noi siamo ciò verso cui siamo attratti, dice Jung: l’Amante, come Archetipo, rappresenta la formazione della nostra identità di milanisti. Ma essendo una storia d’amore, la passione deve maturare anche con un po’ di sofferenza. Quella alla caviglia di Marco, che già poche settimane dopo essere arrivato al Milan si ferma, per essere operato. Ci vorranno sette mesi prima di rivederlo in campo.

Spesso, la passione ha bisogno di un transfert, del trasmettere per il tramite di una traslazione le nostre emozioni primordiali, i nostri sentimenti inconsci e infantili su una persona, non un analista (delle statistiche di gioco, cosa pensate) ma un calciatore, che diventa oggetto del nostro amore. In quei sette mesi di attesa, l’amore tra lui e i tifosi è per adesso chiuso tra parentesi ma inizia a montare. Marco darà una mano al Milan nelle ultime partite di campionato, che vinciamo anche grazie a lui.
Certo, non era andata come Van Basten si aspettava: perché non tragga in inganno l’uso comune (spesso fedifrago) della parola “amante” nella lingua italiana: l’amante ama, in quanto innamorato. L’Amante junghiano desidera essere l’oggetto principale dei sentimenti. Perciò, dopo aver concesso ai cuori milanisti di battere per Baresi, Gullit, Virdis, Donadoni e Ancelotti, va a prendere il proprio posto di preminenza nella stagione successiva. Nella quale attiva il suo Archetipo: dopo tanti anni di centravanti incostanti (e in qualche caso un po’ impotenti) come Calloni, Chiodi, Jordan, Blissett, Hateley, di colpo milioni di tifosi iniziano a sentire un amore fortissimo per un numero 9.

La passione generata dall’eros è quella forza che genera l’empatia tra le persone e che inizia col piacere derivato dalla relazione con l’altro. Marco non si nega, e diventa il grande protagonista degli anni di Sacchi, soprattutto in Coppa Campioni. Inizia a trascinare la squadra con 4 gol ai primi avversari, il Vitocha (nome temporaneo del Levski Sofia). Poi segna a Belgrado (nel replay della partita della nebbia, che passiamo ai rigori), segna con il Werder Brema nei quarti 0-0 e1-0), segna in entrambe le partite contro il Real Madrid in semifinale. E in finale, proprio come il Ribelle Gullit, suo diversissimo complemento d’attacco, mette a segno una doppietta. Ma ci accompagna anche l’anno successivo con i suoi gol, amante magnetico e carismatico, fino al Prater di Vienna (vittoria sul Benfica e seconda Coppa Campioni consecutiva), cui seguono la Supercoppa Europea e la seconda Intercontinentale. Al momento sembra che per Van Basten sia più naturale rinnovare il suo amore con i tifosi in notturna, sotto le stelle, negli appuntamenti di Coppa dei Campioni: all’epoca la Serie A, non esistendo contratti con le tv via satellite, gioca solo di pomeriggio. Ci vorrà il pragmatico Fabio Capello per rendere quell’amore meno romantico e lunare, e abbastanza redditizio da riportarci a vincere in Italia.

Il rapporto tra Eros e Thanatos, tra Innamoramento e Morte (sportiva) è quello tra due facce della stessa medaglia: a fianco di una pulsione vitale, ne troviamo una che all’opposto disgrega e annichilisce. Anche i tifosi rossoneri.
La caviglia di Marco è il suo tallone d’Achille, e dopo tante operazioni nel corso degli anni, lo costringe a ritirarsi a 28 anni, nel pieno della carriera. “Muore (sportivamente) giovane chi è caro agli dei”, scrivevano gli antichi: l’olandese chiude da calciatore avendo vinto al Milan tre Palloni d’Oro, quattro campionati italiani, tre Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali e segnando 125 gol. Annuncia il ritiro nell’agosto 1995. La storia d’amore con Andrij Shevchenko inizia nell’agosto 1999.

Cresciuto nella Dinamo Kyev del colonnello Lobanovsky, non arriva in Italia da sconosciuto: lo paghiamo circa 25 mln di dollari (41 miliardi di lire, contro il miliardo e rotti per Van Basten) e subito, lui abituato agli allenamenti da “salita della morte” con Lobanovsky, si stupisce della poca intensità a Milanello. Ricorda Costacurta che “nel giorno delle ripetute, alla fine di più di due ore e mezza ininterrotte di allenamento, ci stavamo dirigendo tutti negli spogliatoi. Andriy un po’ titubante e con un italiano zoppicante mi chiese Billy scusa quando inizia allenamenti? Credevo che mi stesse prendendo per il culo, ma quando rimase ad allenarsi da solo ho capito che diceva sul serio…”
Ricorda anche Zaccheroni, il suo primo mister al Milan, di avere dato il giorno libero a Ferragosto. Sheva invece voleva allenarsi. “Feci sapere ai magazzinieri di non dargli l’attrezzatura nel caso si fosse presentato. Quando mi svegliai a Milanello, vidi Shevchenko vestito in borghese che faceva le ripetute correndo…”.

Le scelte dell’Amante, junghianamente, sono energiche e potenti, Sheva voleva essere fedele all’impegno preso con se stesso: venire al Milan e vincere. E con noi vincerà tutto. Capocannoniere il primo anno con ventiquattro gol, Milan che portava sul petto lo scudetto dell’anno prima
(…di quel primo anno ricordo la tripletta irreale segnata alla Lazio all’Olimpico: segnava in ogni modo, di destro, di sinistro, dribblando in area, di testa, su rigore, di rapina e di potenza. Il gol era il suo destino, lui un giocatore totale, impossibile da marcare, potente e veloce, tecnico e fisico, una vera iradiddio di cui ci innamorammo tutti subito)
anche i compagni lo riconoscono da subito come fenomeno, “quello che tutti dicevamo di Sheva”, dichiara all’epoca Ambrosini, “era che ogni volta che tirava faceva gol”. Nel 1999, derby con l’Inter, segna anche di… culo: ci prova di testa ed è traversa, varie ribattute e poi la sua gamba casualmente incoccia il flipper provocato da un interista su tiro di Rui Costa, siamo più in zona biliardo che calcistica, comunque è gol.

L’Amante rappresenta la parte passionale della nostra personalità, ma al suo arrivo il Milan ha problemi di testa. Ovvero: è in cerca di un allenatore che dia una fisionomia alla squadra, che abbia un feeling con la nostra Storia e il nostro gioco. Lo troviamo in Carlo Ancelotti, che arriva a campionato 2001/02 in corso. La passione divampa dalla stagione successiva. Sheva a causa di infortuni gioca poche partite, da agosto a dicembre gioca solo 4 partite da titolare, e malgrado la presenza di Inzaghi, Tomasson e Rivaldo, la sua assenza si ripercuote sul nostro campionato. In teoria è una delle sue stagioni peggiori: quella con meno presenze e meno gol. Ma Ancelotti punta su di lui per la Champions League, che in quegli anni ha una formula pesante, con due fasi a gironi. Il che significa che ci ritroviamo davanti – tra le altre – Deportivo La Coruna, Bayern Monaco, Real Madrid, Borussia Dortmund, Ajax, Inter, Juventus. Nel crescendo finale delle partite col batticuore, lui c’è – e segna con l’Ajax, segna con l’Inter, e segna QUEL rigore a Buffon in finale. “Il mio gol più importante in assoluto. Le statistiche sono importanti, ma poi c’è il momento, c’è la passione”.

È nella storia il gioco di sguardi con l’arbitro e con Buffon: Sheva quel rigore non lo può sbagliare. Lo segna, e diventa parte del milanismo per sempre, l’amante junghianamente identificato con l’oggetto del suo amore: passione, attaccamento, estasi: quella sera di maggio del 2003 l’appagamento era quasi fisico. Il principio del piacere, dice Freud, si fonda sul desidero. Jung vi aggiunge l’idea che alcuni piaceri siano più difficili da realizzare, dovendo tenere conto delle restrizioni della realtà – l’Eros si trova quindi schiacciato dalla lotta interiore tra la ricerca del piacere e le necessità della vita.
Sheva, amante junghianamente perfetto di un intero popolo, sublima entrambi gli aspetti e fa vincere al Milan la Coppa forse più bella della nostra Storia.

Sheva farà coppia con Kakà l’anno successivo in un Milan pazzesco, a pensare ai campioni che vi giocavano: Maldini, Nesta, Seedorf, Inzaghi, Rui Costa, Gattuso – tra gli altri. Il campionato lo vinciamo iniziando a macinare da subito, due gol suoi ad Ancona, uno al Bologna, poi al Lecce, Shevcenko segna anche nel nostro 1-3 in casa nerazzurra, siamo corsari a Torino anche con un suo gol, chiude il campionato segnando altri ventiquattro gol (capocannoniere). Siamo Campioni d’Italia, siamo tutti calcisticamente innamorati di Sheva, la passione ha travalicato l’empatia. Eppure rimarrà questa l’ultima vera grande vittoria di Sheva con il Milan.

L’amante è il simbolo della passione e la passione si lega spesso al tormento, alla sofferenza, quando l’oggetto della passione si nega, come un gol sbagliato. Uno dei ricordi più dolorosi della nostra vita di milanisti è connesso a Istanbul. Stagione iniziata molto bene, tripletta contro la Lazio in Supercoppa ma il campionato si indirizza verso Torino, ricordo la partita al Comunale come uno scandalo ma tant’è, ci consoleremo con la Coppa. E invece no, come ben sappiamo. Con i suoi gol buttiamo fuori l’Inter ai quarti (la vergognosa partita del petardo e delle scene da Apocalypse Now nella nostra area, tutto dimenticato in fretta perché si sa, loro sono tanto superiori). Segna anche al PSV nelle semifinali, e arriviamo in finale a Istanbul. Partita giocata da favoriti, stravinta e poi persa disgraziatamente, con Sheva protagonista sfortunatissimo, frastornato e segnato dalla sfiga, alla fine. Dudek gliele prende tutte. Anche dal dischetto, nella serie finale.

Sappiamo che dopo Istanbul c’è sempre Atene, per fortuna, ma non per lui, che nell’estate del 2006 ci lascia e sceglie il Chelsea. Lì trova l’antitesi dell’Amante: il Narcisista Mourinho, che ama solo se stesso – e odia i milanisti: non a caso, prima distruggerà lui, e subito dopo Kakà. Sheva, proprio come farà Kakà, torna a Milano ma a quel punto, dell’innamoramento è rimasto il ricordo. Che è difficile da eguagliare, e non solo per lui: è il secondo cannoniere rossonero di sempre dopo Nordahl, e davanti a Gianni Rivera. Qualcuno sarà capace di un’unione altrettanto perfetta con il Milan?

Avremo altri innamorati, ne siamo sicuri. Ma per darci quello che ci hanno dato Marco Van Basten e Andrij Shevchenko ci vorrà tantissimo amore. Non ci basteranno i gol (certo, aiutano): quando sentiremo la passione che ci riempie, allora sapremo.

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