FOREVER JUNG: Archetipi Milanisti. Capitolo VIII: IL SOVRANO

(a cura di Antonio “Vannucco” Rampini)

Odi et amo, scriveva Catullo, per esprimere il travaglio interiore nei confronti della sua Lesbia: penso di non essere l’unico ad avere vissuto questa ambivalenza emotiva verso l’uomo che a metà degli anni ’80 ha cambiato il destino del Milan, prima salvandolo, poi immaginandolo, creandolo, idealizzandolo, con lo spirito del visionario e la concretezza dell’imprenditore (salvo poi disinteressarsene, alla fine dell’avventura). Stiamo parlando naturalmente del Presidentissimo, Silvio Berlusconi, che pensiamo incarni idealmente l’Archetipo del Sovrano junghiano (ci addolora che il Presidente sia recentemente mancato: siamo certi la definizione lo avrebbe sollazzato non poco).

Quello del sovrano è infatti l’archetipo della leadership, di chi combinando al meglio le risorse (materiali e umane: lui non aveva problemi, poteva arrivare a quasi tutto con soldi, intuizione e competenza…) costruisce una squadra affiatata e vincente.

Berlusconi è stato senz’altro “geniale”, tra affari, marketing e politica, ma è inutile (e non ci interessa) parlarne al di fuori del ruolo che ce lo ha fatto amare prima e sopportare nella Banter Era: quello del Sovrano che ripensò il Milan.
Silvio Berlusconi ha infatti realizzato, pensateci, qualcosa di clamoroso ed enorme, ha modificato in profondità il nostro modo di essere e sentirci rossoneri, lavorando sulla nostra coscienza di tifosi come un Sovrano illuminato, ispirato e visionario, direbbe Jung, avrebbe potuto fare.
La sua discesa in campo, dopo avere rilevato (in pratica salvato) un Milan in grande difficoltà, gli fece assumere in modo dirompente il ruolo di “nuovo signore” del calcio.

Berlusconi incrina rapporti collaudati (strappa alla Juve Donadoni, gioiello atalantino promesso agli Agnelli); acquista giocatori bulimicamente, da Nanu Galderisi, all’epoca centravanti della Nazionale, ai Massaro e ai Bonetti, Ancelotti e Giovanni Galli, ne ricordiamo poi lo sgomitare per acquistare gli Olandesi (Gullit, Van Basten e Rjikaard) mantenendo la formidabile ossatura italiana; mentre si inventa una nuova organizzazione (manageriale) anche nel calcio.

Berlusconi stava al calcio del 1990 come il Qatar a quello del 2020: nessun investimento era precluso (almeno all’inizio) per realizzare il Progetto (e fondamentale fu l’ispirazione del suo braccio destro, il miglior dirigente italiano per 25 anni, Adriano Galliani). In aggiunta Berlusconi riuscì a conquistarsi credibilità e autorevolezza, per sé e per il Milan: un bonus non da poco, e non solo junghianamente.

Certo ci volle tempo, e fu necessario abbattere il muro di chi ironizzava sulla Forma per criticare la Sostanza, ad esempio la presentazione hollywoodiana di quel Progetto. “Quegli elicotteri serviranno per scappare” fu il commento di Tacconi, il portiere della Juve, all’arrivo della squadra all’Arena di Milano nel 1986, sulle note epiche della Cavalcata delle Valchirie. Ci volle tempo, ma non troppo: allontanati gli ingombranti Rivera e Liedholm (qualcuno potrebbe trovare interessanti analogie tra Sovrani e Cardinali, ehm, insomma con la storia di un Milan decisamente più recente), Berlusconi attualizza e rende oggettiva la sua Idea – qui lo spunto è Platone, un regista greco che calca i campi dopo Socrate(s) e ispira Jung, l’Idea di Platone diventerà in seguito appunto il simbolo, l’Archetipo di Jung.

Ma qual è l’Idea di Berlusconi? Il nostro Sovrano fin da subito immagina il suo Milan come squadra dominante nel mondo: è questa l’Idea trascendente (della squadra rossonera) che Berlusconi vuole concretizzare e portare a fondamento della nostra realtà di tifosi.
In questo è aiutato dal fatto che il timido Milan del 1986, reduce da due retrocessioni e senza grandi stelle, resta comunque la squadra italiana più gloriosa in Europa, la prima ad avere vinto la Coppa dei Campioni, fucina di campioni e maghi (Liedholm, Cesare Maldini, Schiaffino, Rivera tra gli altri) e densa di Storia. È la constatazione di quello che poi sarebbe stato definito “DNA europeo”.

La sua più grande intuizione, da Sovrano visionario, lo porta poi a scegliere Arrigo Sacchi, per affidargli il ruolo di Creatore di schemi e squadra (allenatore visionario, ossatura italiana, innesti formidabili), dandogli fiducia anche nell’inizio difficile. Ma tutti i giocatori sono coinvolti nel progetto, che all’inizio sembra loro lontano, fuori portata, quasi folle.
Il resto è storia. Squadra e società sono fenomenali, vinciamo tutto.

Esaminiamo da vicino junghianamente il regno del Sovrano: responsabile nei confronti dei tifosi, il Sovrano promuove l’abbondanza (dei giocatori: Papin, pallone d’oro, era la punta di riserva di quei Milan, in cui Baggio e Savicevic erano alternativi sulla fascia sinistra…) e la prosperità (ovvero le tante vittorie: “Santiago Bernabeu ha vinto la metà delle Coppe che ho vinto io, e gli hanno pure dedicato lo Stadio”) (chissà…).
“Santità”, dice a Giovanni Paolo II, “lei assomiglia molto al mio Milan. Lei come noi è spesso all’estero, cioè in trasferta, a portare in giro per il mondo un’idea vincente, come quella del mio Milan. Che è poi l’idea di Dio, la vittoria del bene sul male.”
La grandezza si fa grandeur, mentre il Presidente mantiene (lo diceva di sé) “un forte carattere guascone”: sono comunque aneddoti che ci strappano un sorriso, oggi pieno di nostalgia.

Il periodo d’oro lo facciamo durare fino al 2007, l’armonia milanista era già stata incrinata dalla cessione di Shevchenko; dopo la Coppa di Atene ci lascerà anche Kakà e passeremo anni a vivacchiare, senza investimenti e senza la progettualità dei primi anni, inneggiando a Cerci. Gli Archetipi possono presentare, lo sappiamo, anche un lato negativo, che emerge (in questo caso) quando il Sovrano non riesce a rinnovarsi, con energia, idee, nuovi centrocampisti affermati: per vedere in Italia Fabregas, agognato per anni, abbiamo dovuto aspettare il Como!
Così dopo uno strappo orgoglioso e lo scudetto del 2011, si ha una discesa Costant verso la mediocrità, l’anonimato, il grigiore dei decimi posti, la rosa non all’altezza sistemata negli ultimi giorni di mercato (detto con tutto l’affetto per chi ha vestito la nostra camiseta), con le dolorose cessioni di Ibra e Thiago Silva a ciliegina sul periodo.

Abbiamo insomma vissuto sia la Luce che l’Ombra del Sovrano, l’odi et amo che ricordavamo all’inizio, il Milan vincente ma che negli ultimi anni si perde, tra i troppi amministratori delegati (ma “io non ho mai lasciato che la vita privata potesse entrare in campo con me”, dichiarò Pato, ehm) e i pochi acquisti di peso, con il Progetto che sparisce per arrivare alla cessione vera e propria della squadra – la Sindrome Cinese ce la siamo poi portata sulla pelle per anni…

E dunque?
Silvio Berlusconi è stato un personaggio controverso: innovativo e ambizioso, mediatico e visionario, è lui che ci fa vivere almeno vent’anni esaltanti – sia quel che sia del finale di partita – e soprattutto resta colui che ha forgiato il nostro Archetipo di Milan, la nostra Idea di Milan attuale. Se il Milan è la squadra italiana più tifata al mondo e pensiamo con il tifo più caloroso in Italia, in buona parte lo dobbiamo a lui e alle sue scelte, lui che ha riacceso la brace dell’entusiasmo (vince 29 trofei in 31 anni di Presidenza, tra cui 8 scudetti e 5 Coppe Campioni) e insieme all’orgoglio ha ampliato i confini (e le aspettative) del nostro essere milanisti.

Sovrano (non solo junghiano) di un tempo che non è più. Ma che potrebbe tornare (quel tempo, non il Sovrano). Simbolo fondamentale per lo sviluppo della nostra odierna coscienza di rossoneri.

 

 

 

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