Forever Jung (Archetipi Milanisti) – Capitolo VII. IL SAGGIO

(a cura di Antonio “Vannucco” Rampini)

Oggi parliamo di un nome mitico nella storia milanista. Mitico, dal greco mỳthos, leggenda, Secondo la Treccani:
 
“Narrazione fantastica tramandata oralmente o in forma scritta, con valore spesso religioso e comunque simbolico, di gesta compiute da figure divine o da antenati – esseri mitici – che per un popolo, una cultura o una civiltà costituisce una spiegazione sia di fenomeni naturali sia dell’esperienza trascendentale”.
 
E se il popolo è il nostro, quello rossonero, allora ci ritroviamo appieno nella spiegazione enciclopedica: sono parecchie infatti le figure mitiche che hanno vestito la nostra maglia. Spesso la loro grandezza si è trasfigurata nei decenni, visto che parliamo di giocatori che hanno brillato nell’epoca del bianco-e-nero o ancora prima, in un tempo di cui non esistono filmati.
Siamo alla tradizione orale, ecco.
 
Alcuni Miti possono anche essere considerati Archetipi, perché sono il modello impeccabile di certe virtù. L’Archetipo del Saggio, secondo Jung, contiene quelle di chi ci guida con sicurezza, chi ricerca la verità sull’universo e dunque anche sul giuoco trascendendo le distinzioni (anche dei numeri di giuoco: mentre allenava il Milan, il Saggio di cui parliamo faceva giocare Franco Baresi con il numero 4) ed esplicitando, anzi diventando la voce interiore (della squadra).
Ecco descritto Nils Liedholm, insomma.
 
(una figura a me particolarmente cara, l’allenatore dello scudetto della Stella, colui che ha contribuito a lanciare un Eroe – Franco Baresi – trasformando una squadra che due anni prima aveva rischiato la retrocessione)
 
In lui c’era una ricerca anche spirituale (arrivava a scrivere le formazioni aiutandosi con la lettura di carte, oroscopi e scaramanzia), perchè questa componente esoterica può aiutare il Saggio a raggiungere la verità oggettiva, la consapevolezza: anche il Milan, passata Verona e senza decolorare le proprie maglie, può finalmente vincere lo Scudetto! E che Scudetto: il suo mix per portarci alla Stella è fatto da fenomeni (Rivera all’atto conclusivo, Franco Baresi, Maldera in formato goleador, un Albertosi stratosferico, Collovati), vecchi bucanieri (Capello, Bigon alla sua migliore annata, Morini) e giocatori rivitalizzati o appena arrivati in rossonero (Novellino al suo apice, Antonelli, De Vecchi e Buriani colonne a metà campo, Bet) con l’idea di Chiodi unica punta, pochi gol ma un lavoro evidentemente importante come “centroboa”.
 
“Liddas” Liedholm diventa icona rossonera fin dagli anni ’50: Campione Olimpico nel 1948 e Vicecampione del mondo nel 1958 con la Svezia, già dal 1949 è anima di un Milan che plasma la leggenda, il “Li” finale nel mitico Gre-No-Li il trio svedese Gren-Nordal-Liedholm che fa la storia del calcio.
Quando decide di trasferirsi in Italia, si racconta che abbia detto al padre “tranquillo, papà: un anno, massimo due, e poi torno”. Finisce a passare in Italia tutta la vita: e al Milan gli anni migliori.
Scrive di lui nel 1955 Bruno Roghi, sull’Almanacco Illustrato del Calcio: “La dote peculiare del lungo e agile giocatore svedese non consiste soltanto nella raffinatezza del suo tocco di palla e nella precisione del suo passaggio. Sta soprattutto nella sua inclinazione naturale a veder chiaro e a fare luce nei grovigli delle azioni di gioco (…). Si ha quasi sempre la sensazione che l’atleta pensi a cosa ne deve fare, della palla, prima ancora di attirarla nel suo raggio d’azione. Di qui il gioco a un tempo meditato e nitido, sobrio e geometrico del prezioso giocatore della schiera milanista”.
Junghianamente, Liedholm incarna il ruolo del saggio già allora, da giocatore: anche in campo il Saggio pianifica la sua azione, aiuta la squadra a superare il proprio ego e a trovare soluzioni ai problemi di “jjòco”, come lo chiamava lui: un regista fantastico, insomma.
 
La sua junghiana compostezza, il non coinvolgimento diventano tratti essenziali anche da allenatore: racconta Altafini di quando fece a Liedholm un classico scherzo da spogliatoio già proposto a Nereo Rocco. Altafini si nasconde, completamente nudo, nell’armadietto dell’allenatore per poter zompare fuori urlando “bauuuuu” (l’onomatopea è di Altafini) e spaventarlo. Il Paròn, subendo tale scherzo, era stato al gioco reagendo con urli, spavento e insulti: “Facia de mona!”. Liedholm, davanti alla stessa scena, guarda Altafini calmissimo quanto imperturbabile e gli dice: “Questo no è tuo armadietto”.
 
Come Rocco, altra divinità del nostro Pantheon, Liedholm ha un rapporto schietto e umano con i giocatori: è un allenatore convinto delle sue idee, uno dei primi a giocare la zona in Italia, antesignano del possesso palla. Mette dei ragazzi in condizione di giocare in prima squadra senza complessi: lo fa con Franco Baresi, con Paolo Maldini, dopo aver scoperto nelle nostre giovanili Pierino Prati e Nevio Scala.
Ma prima di essere un allenatore è un uomo pacato, che offre la sua persona a molti aneddoti, che a volte è lui stesso a raccontare: e qui si potrebbe introdurre il lavoro di un allievo di Jung, James Hillman, che partendo dalla teoria degli archetipi le collega con le forme di arte, poesia, narrativa. Ecco, Liedholm (oltre a essere un artista in campo, naturalmente) aveva il gusto del narrare.
Come quando ricordava: “Un giorno a San Siro tirai fortissimo, colpii la traversa e il pallone ritornò nella nostra area”. Oppure “Un giorno sbagliai un passaggio, non succedeva da due anni e tutto lo stadio fece un oohhh di meraviglia”. Junghianamente l’archetipo ci parla attraverso immagini che aiutano a ridurre l’illusione. Ci lanciamo: si potrebbe dire che proprio nell’esagerazione si può ritrovare il gusto di Liedholm per l’understatement. Del nostro Dustin diceva: “Antonelli è il nuovo Cruijff” e Roberto Mandressi, giovane speranza rossonera, era “il Resenbrink della Brianza”.
 
Da allenatore ci scherzava sopra: “Io schiero squadra in modo perfetto. Il problema è che quando arbitro fischia inizio di partita, i giocatori si muovono”. Oppure che fare “l’allenatore di calcio è il più bel mestiere del mondo, peccato che poi ci siano le partite”.
A Roma, 1985, il Milan deve giocare contro la Lazio, ma quel giorno nevica e la partita non si gioca. Il giorno dopo Incocciati scopre di essere uscito dalla formazione titolare. “Mister, perché ieri ero in formazione e oggi no?”. Liedholm gli risponde fulminante: “Appunto, tu già giocato ieri, oggi gioca Virdis che è più riposato…”. Il Saggio, conscio che la verità è unica, sa anche che contiene sempre il suo opposto, e lo usa per liberarsi dalle costrizioni (verbali: per giustificare con l’ironia una scelta tecnica non condivisa).
 
(ricordo perfettamente un Milan-Napoli del 1986, Liedholm era nocchiero di un Milan travagliato e non eccelso, ehm, che poteva schierare però in squadra Pablito Rossi, Virdis e “Attila” Hateley. Scelse di giocare a Napoli contro il Napoli di Maradona schierando le tre punte, cui aggiunse anche Marco Macina, meteora che Liedholm descriveva come “più veloce con la palla tra i piedi che senza, mai visto uno così!”. Questo, dichiarò, perché “Con quattro punte saranno loro a doversi difendere”. Perdiamo 2-1, naturalmente, per fortuna il Saggio junghiano ci aiutava a superare i momenti critici…)
 
Le stagioni di Liedholm al Milan si chiudono (280 panchine, in tanti anni) dopo l’avvento di Silvio Berlusconi, siamo nel 1987. Liedholm si trova a gestire esuberanza e frenesia presidenziale con la propria compostezza e riaffermando la propria indipendenza: viene sostituito a fine campionato (formalmente è promosso al ruolo onorifico di Direttore Tecnico) da Fabio Capello, che si giocherà, vincendolo, lo spareggio per la Uefa con la Sampdoria.
Il Barone Liedholm ha vinto in rossonero 5 scudetti (di cui uno da allenatore) e due Coppe Latine.
Un vero Totem rossonero, che ci ha lasciato nel 2007.

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