(di Federico Dask)
Ve le ricordate quelle serate gelide di fine girone a San Siro col Borussia Dortmund o con il Deportivo? Noi già abbondantemente qualificati – allo stadio quasi più per obbligo morale che per reale interesse – e gli altri aggrappati ancora alla qualificazione, a giocarsi il tutto per tutto contro le nostre riserve? Ecco, ieri sera sembrava proprio una di quelle notti lì: solo che stavolta, e forse per la prima volta dopo tanti anni, quelli che imboccavano viale Caprilli con la tachicardia eravamo noi.
È dura pensare a Milan e Liverpool sullo stesso campo senza evocare un caleidoscopio di emozioni largo come il Canale di Suez. Mettici anche la loro prima volta di sempre alla Scala del calcio e gli ingredienti ci sarebbero già tutti. Quanto sarebbe stato bello se la classifica ci avesse regalato uno scontro decisivo per entrambe: una di quelle notti da Milan, dentro o fuori e tutto sul piatto. Invece, almeno per una delle due compagini, questa sesta giornata era a tutti gli effetti una mera formalità. Non fosse stato per l’Ave Maria madrilena partorita sull’asse Bakayoko-Kessie-Messias, si sarebbe potuta tramutare nell’equivalente di un’onesta sgambata infrasettimanale contro la Solbiatese nella nebbia di Carnago. La vittoria al Wanda Metropolitano ci aveva invece concesso un’altra boccata d’ossigeno e un’occasione di prendersi una piccola rivincita sulla sorte che, nel nostro primo ritorno nell’Europa che conta, era stata cinicamente spietata.
Era il momento di tornare a indossare l’abito della festa e onorarla, questa bellissima occasione. Seppur contro le loro riserve, sapevamo che un aiutino dal piano di sopra sarebbe stato molto utile per allineare gli astri a nostro favore. E a discapito di una formazione più obbligata che annunciata, la botta del suddetto culo è puntualmente arrivata sul piede del nostro miglior difensore, lestissimo nell’insaccare – come il migliore dei pivot – il tap-in per un immeritato (quanto paradisiaco) vantaggio. E qua diciamocelo: per qualche minuto ci eravamo un tantino illusi che un po’ di quel credito accumulato in questa campagna continentale stesse cominciando a tornare all’ovile. Invece, con il sadismo di un romanzo di Palahniuk, un Liverpool a tratti davvero sontuoso ha voluto punirci sugli unici due assist che gli abbiamo comodamente servito sul piatto. Come a dire: perché mettere in porta due qualsiasi delle 489 occasioni da gol meritatamente costruite quando possiamo farvi impazzire capitalizzando le uniche due in cui avete fatto tutto da soli?
Il resto, inclusi i due gol colossali sbagliati da Kessie – a sua discolpa, in un mondo migliore al suo posto ci sarebbe dovuto essere uno dei nostri tanti (quanto indisponibili) attaccanti – è stato un sadico garbage time in cui è riuscita a resuscitare come l’Araba Fenice persino la banda del Cholo, al quale pensavamo di aver già dato l’estrema unzione.
Abbiamo avuto una mezz’ora abbondante per rivedere – come dicono accada prima della morte – il film di questo girone di Champions e fare la conta di tutti quei “SE” con cui oggi potremmo riempire il buco nell’ozono: SE il gol di Kjaer fosse stato convalidato, SE Kessie non avesse preso quel doppio giallo, SE non ci avessero beffato con quel rigore osceno al 96esimo, SE avessimo fatto almeno tre punti a San Siro col Porto, SE non ci fossimo ridotti a sperare nella cabala per passare all’ultimo respiro. Quasi un tempo intero a buttarsi il cilicio addosso come frati penitenti.
Ma è importante comprendere che non possiamo portare addosso la croce di tutti i rimpianti che abbiamo (inevitabilmente) collezionato in queste sei partite. Possiamo solo riconoscere la spietata, meravigliosa crudeltà di una competizione dove spesso entrano in gioco fattori – vedi il già citato sedere – che possono cambiare il destino di una stagione in ogni momento. Questa nostra avventura – come una grande vetta alpina – ci ha messo faccia a faccia coi nostri limiti e ha deciso di respingerci anche quando sembrava ci fosse una finestra di bel tempo; perché forse, semplicemente, non era ancora venuto il nostro momento. E se sarà necessario acclimatarsi ancora in po’ a bassa quota prima di poter tentare la scalata alla vetta, così sia.
Tutto sommato, possiamo pensare a torture molto peggiori che passare altre sei notti d’autunno, guardando le stelle, coi nostri colori preferiti addosso.