Insomma, ero nel bel mezzo di una domenica uggiosa che contavo le ore che mi separavano dalla prima da buttare giù al baretto. Stavo lì mezzo assopito sul divano che scanalavo con il mio gatto nero Arturo di sei kili abbondanti piazzato sullo stomaco, quando distrattamente la mia attenzione è stata catturata da una scritta incastonata nel crepitio fotostatico del mio schermo tivvu’. Le parole in un elegante Arial Narrow mi segnalavano come su qualche campo di calcio nella parte dell’Universo assegnata al nostro sistema solare Destro Mattia avesse segnato nientemeno che su assist di Poli Andreino. Ora, non me vogliano i fans (?) dell’Andrea nazionale, che per altro pare essere anche bravissima persona, ma sono precipitato in un buco nero siderale che mi ha riportato in epoche oscure del nostro recente passato, quando veleggiavamo al decimo posto sfoggiando una rosa che si onorava di annoverare Il reduce della campagna di Russia del ‘43 Sasà Bocchetti, Zachy Zaccardo, Sulley Muntari, il cugino scarso di Essien, Alex ormai in zona TFR e la promessa Van Ginkel (Chi? Appunto). Che anni duri abbiamo passato amici, che domeniche mortificanti chiusi nel nostro dolore, in un San Siro spesso desolatamente spopolato (ma mai da noi).
Adesso posso dirlo, come una specie di Amy Winehouse che non ha detto no al rehab. Ce l’ho fatta grazie alla mia fedele crew di fratelli, alla mia ortodossia integralista milanista e a tante, ma tante birrette. Tipo quella che ho rischiato di rovesciare quando in un momento indefinito del primo tempo ho visto Paquetà dare via una palla di prima in controtempo, praticamente mandando a raccogliere le margherite mezza difesa avversaria. Wow. Stavamo già sul due a zero di un match sbloccato con un discreto colpo di culo, e poi messa in ghiacciaia con un paio di magie distribuite sapientemente ai danni di un volenteroso Cagliari, che per altro ha fatto per lunghi tratti la partita, mentre noi cinici e guasconi li stavamo a guardare con l’aria di chi la sa lunga.
La qualità superiore di Paquetà appunto, le parate sovrumane di Gigio (possiamo dire che quella sporca montagna di soldi se la merita fino all’ultimo cent?), la freddezza di Robocop Piatek, le movenze dinoccolate di Baka, la sicurezza di Capitan Alessio. Ci mancava solo che Calha finalmente riuscisse a buttarla dentro – ragazzo mio, ma che problema hai? Soffri per amore? Ma provare Tinder no? – e l’Happy Ending sarebbe stato completo. Certo, non basta solo questo per essere grandi di già, ma forse è già qualcosa su cui finalmente costruire per un futuro che ci auguriamo possa essere discretamente prossimo. Di sicuro è bastato nella classica giornata in cui hai solo da perderci, visto che tutti hanno vinto ed è un attimo che fai la cazzata, come spesso, tocca dirlo ci è capitato di fare.
Invece restiamo tutti lì appiccicati, in una sorta di riedizione calcistica delle Wacky Races. Avete presente? La Corsa più pazza d’America. Se siete nati nei ruggenti anni 70 non potete esservela persa. L’eterna gara automobilistica all’ultimo sangue dove c’erano Penelope Pitstop (la Viola), la Macigno Mobile (i Bérghem), e altri bizzarri protagonisti associabili ai volubili romanelli. Dovrei dire che noi siamo Dick Dastardly e Muttley della situazione, ma a parte che arrivavano sempre ultimi, ricordo con nostalgia i tempi belli in curva quando ad ogni derby gli Irriducibili, a corollario delle coreografie risibili della Nord – ed erano anni in cui in campo li piallavamo spesso volentieri, ma a livello di spettacolo sempre e comunque – ne facevano una ad hoc contro la Fossa, spesso appunto usando come protagonista il simpatico cane Muttley di cui sopra. Una vezzosa e ironica abitudine che poi, oplà, tutto ad un tratto hanno smesso. Chissà come mai. Ora, io sono l’ultimo degli scemi e quindi non so dire il perché, ci mancherebbe (davvero non lo so, anzi se siete ben informati illuminatemi, in cambio offro birre e pizze al Baretto).
Sospetto solo che l’amore per lo sport e la buona creanza abbia avuto la meglio, come sovente accade fra Gentiluomini di Siffatta Maniera.