A Love Supreme, cap. V. Milan-Genoa

Va bene, l’ammetto. Quando ho visto Gonzalo avvitarsi su se stesso invece di essere perfetto pronto a spararla in porta, quando il loro portiere biondo senza nome (‘Radu?’ ‘Ma non giocava nella Lazzie?’ ‘Sarà il cugino, boh’) ha parato da due metri la bomba a colpo sicuro di Kessiè, mi sono detto: mi arrendo.
E non solo, ho anche pensato: ci sta bene, razza di babbi di minchia che siamo. Parole grosse direte, ma come me lo pensava lo stadio intero, che aveva appena assistito al suicidio programmatico di una squadra che in vantaggio praticamente subito, invece di mettere la partita nel freezer ha smesso di giocare, concedendo campo, gioco, occasioni e alla fine pure un gol ad un Genoa volenteroso, mettiamola così.

Ma è possibile? E’ possibile che ogni volta che siamo lì lì, che possiamo fare quel minimo salto in avanti che non sia vivacchiare nella mediocrità toppiamo clamorosamente? Siamo gente che ha sofferto, che ha visto il Milan naufragare in casa con l’Empoli e il Benevento praticamente già retrocessi, e per questo avevo quel sesto senso che mi lasciava irrequieto mentre già al baretto la gente faceva quei calcoli che regolarmente portano sfiga: vincendo oggi siamo quarti, la differenza reti con la Lazzie è a nostro vantaggio, eccetera eccetera.
E invece ero lì a battermi i pugni sul petto e lamentarmi come il rabbino gangsta di Peaky Blinders. Ma avevo capito che in quei pochi minuti che ci rimanevano quello era il mio ruolo: quello che disilluso che non ci crede, come è giusto che ce ne sia sempre uno in ogni gruppo. E così, mentre Colo razionalmente faceva notare che questo siamo e che questa fase della nostra crescita prevede anche l’inevitabile golletto preso a partita, io mi maceravo in funeste e amarissime considerazioni. Ma sotto sotto sentivo non era detta l’ultima. E quando Alessietto nostro oplà, l’ha buttata dentro è stato con la naturalezza di sapeva che era giusto così, che questo mini- esame di maturità alla fine, ma proprio alla fine, l’avremmo passato. Per una volta non siamo quelli scemi che inciampano sempre, che si fermano un secondo prima del traguardo.

Basterà? Vedremo. Senza Biglia- vorrei su un vassoio temprato acciaio Inox chi ironizzava su di lui- senza Caldara, senza ricambi per Gonzalo e Patrick, ancora lì ad affidarsi ad Abate, che sia chiaro, gli si vuole bene, però dai.
Anche se ironia della sorte è stato Ignazio a scaraventarla dentro senza troppe pretese per l’uscita alla Superman di Radu, dalla cui respinta moscia è nata la palombella che ci ha regalato tre punti che ci portano a vedere le stelle. Oddio, vedere. Insomma, almeno averne un’idea, dopo anni a sgomitare lì in mezzo nel gruppone.

Mentre uscivo da San Siro di stelle non ce ne erano granché, solo cielo nero e la minaccia incombente della pioggia. Sono passato in Axum e ho ripensato a una foto di venti e passa anni fa: anche quello era un Milan Genoa, anche allora pioveva. Solo che quella partita l’avevano sospesa per maltempo (sull’1-0 per noi, gol di Bubu Evani) e il 24, inteso come tram, era passato in mezzo a dividere genoani e milanisti prima di un vivace scambio di opinioni. Non ero nel merito di cosa sia successo quel giorno, oltretutto non ero presente in quel momento, comunque chi c’era ne parla ancora oggi, nel bene e nel male.
Glory days, li chiamava il Boss. Chissà che non siano di nuovo poi così lontani.

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