A proposito di Kakà e di tutto quello che siamo

Ci sono due tipologie umane che vanno spargendo veleno e ironie sul ritorno di Kakà.
Questa constatazione, va premesso subito, ancora prima di svelare a chi alludiamo, non implica che queste persone siano completamente prive di velenose e ironiche ragioni. Sicché questo articolino non intende e non può giudicare. Se non altro, per la semplice ragione che ComunqueMilan come entità è attualmente diviso in più correnti del Partito Democratico. Tra le nostre sfilacciate fila ci sono scettici e ottimisti, romantici e razionalisti, esteti e concreti. Perciò non esprimeremo realmente una posizione su una vicenda davvero bizzarra e complicata come quella del figlio di don Bosco. L’unica considerazione personale che mi arrischio a dichiarare pensando di essere condiviso anche dai compagni di cordata di CM è che nel caso Kakà, ognuno ci vede quello che vuole. Come nelle nuvole, come nei test di Rorschach, come nel Governo, come nelle canzoni di Battisti.
Detto questo, adesso entriamo nel dettaglio. Due tipi di tifosi, si diceva, esprimono veleno e ironie. I primi sono gli interisti.
E non gli juventini – i quali, cosa che sorprende ma fino a un certo punto, hanno quasi tutti glissato sull’argomento, forse perché molti di loro a Del Piero darebbero una maglia ancora adesso (…in effetti, alcuni la darebbero pure a Platini). Né i romanisti, o napoletani, gente che sa benissimo cosa vuol dire amare un giocatore scollegando felicemente il cervello.

I secondi però sono milanisti. Sì, milanisti poco inclini al romanticismo. E non tanto perché rinfacciano all’ex Pallone d’Oro il suo “tradimento”, quanto perché gli rinfacciano l’anagrafe e il costo (si sa, son tutti soldi nostri), ma soprattutto sposano la tesi di – nientemeno – Mourinho, secondo il quale oltre che un ex Pallone d’Oro Kakà è anche un ex giocatore da quando l’abbiamo venduto al Real Madrid.
(per alcuni, anche da prima. Certo è uno dei tanti che non ha precisamente fatto da testimonial del mitico MilanLab).

Ecco, questo è interessante, ed è il punto su cui può essere interessante ragionare (non troppo, s’intende).
Insomma, all’improvviso, nel Milan, scopriamo una vena mourinhista, se non apertamente interista. Ferocemente concreta.
Un nuovo partito milanista che ripetiamo, ha anche degli argomenti. Ma che di fatto, somiglia in modo inaspettato alla feroce concretezza che contraddistingue, dai tempi di Helenio Herrera, la tifoseria della seconda squadra di Milano.
Da prima che noi nascessimo, gli interisti disprezzavano l’eleganza di Rivera, e mentre il mondo lo incoronava, primo italiano, Pallone d’Oro (…anche lui), il loro vate li esaltò coniando per il nostro numero 10 la definizione di “abatino”.
Poi, in anni a noi più vicini, gli interisti hanno cercato la determinazione teutonica dei tedeschi (Rummenigge, Matthaeus, Brehme) o quella pugnace degli argentini, anche per distinguersi da noi.
(loro? Distinguersi da noi? Oh, è solo il motivo per cui esistono: i loro avi fondarono la squadra giusto per quello. E poi hanno il coraggio di negare di essere ossessionati). I panzer tedeschi contro i sontuosi olandesi, i dogo argentini contro i ballerini brasiliani.
Fermi, non sto dimenticando i giocatori di estro puro che hanno vestito la maglia nerazzurra. Più Mazzola che l’iperpotente Ronaldo, più Suarez che il comunque impressionante Eto’o.
(chi lo scrive non è così vecchio da aver visto giocare Mazzola né Suarez: si fida di quel che ha letto e sentito dire)
Di giocatori di classe incantevole ne hanno avuti – d’altra parte, in cent’anni o quelli che sono, le probabilità c’erano tutte. Ma non è questo il punto.

Il punto è che i nostri cugini hanno sempre diffidato, ostentatamente, dell’idea milanista che anche gli schemi avessero una loro eleganza, del gioco corale, di un calcio che desse una qualche idea di armonia. Lo scherno verso “i meravigliosi” viene anche dall’attitudine a giocare un calcio che puntava tantissimo sui singoli, anche a costo di fare una squadra di formidabili, ancorché spesso umorali solisti (l’emblema dei quali potrebbe essere l’amatissimo, anche se poi rinnegato e pedinato, Christian Vieri). In effetti a Mourinho va riconosciuto di aver dato ai nostri parenti nervosi una coesione basata sul carattere: in due anni li ha spompati come nemmeno un decennio con Sacchi, e quando è scappato la cosa si è vista, ma il guappissimo portoghese ha innegabilmente enfatizzato e messo al servizio del bene comune proprio quel furore semi-isterico che ogni tifoso interista pretende dai suoi giocatori, pena tirargli dietro motorini o molotov (ai lettori più giovani: sì, lo hanno fatto veramente).

Bisogna capire questo, per arrivare a capire come mai delle persone che nella vita magari possono essere anche simpatiche da frequentare (senza esagerare) possano realmente incoronare, come proprio eroe di bimbo cresciuto, una roba orrenda come Materazzi. La maggioranza dei tifosi color funerale si eccita come davanti a un porno quando scorrono le immagini del loro supereroe che punta e abbatte Shevchenko, il quale ovviamente, sapendo giocare a pallone, è stato sempre bollato come “ricchione” da un’ampia fetta dei frequentatori della Nord.
E tuttavia, se in passato potevamo essere sicuri che il materazzismo, l’adorazione del prepotente perché dotato delle concrete stimmate del “duro” stessero di casa nella metà buia di Milano (fatta eccezione per “Ringhio” Gattuso, utile ma troppo incline a farsi trascinare dal personaggio, se vi ricordate certe espulsioni), è evidente che da qualche anno, forse proprio a causa del ciclo Mancinmourinhano, una pragmatica vena muscolare ha preso piede anche tra noi, fino ad arrivare al corposo partito di chi non ha tempo per i sogni e tutte quelle balle lì, e si disferebbe anche subito di El Shaarawy.

Probabilmente tutto è iniziato con i mugugni contro Seedorf (qualunque cosa facesse). Ai quali si sono gradualmente uniti gli sbuffi sullo scostante Pirlo post-2007. E poi, via via, una crescente diffidenza verso i brasiliani, prima così venerati: Ronaldinho e Pato, che forse in altri anni avrebbero trovato quella comprensione che il popolo rossonero concedeva a gente più scarsa e più improduttiva di loro, tipo (tremate, stiamo per fare un certo nome) José Mari, capace di rimanere in squadra dal 1999 al 2002 e giocando non poco (l’anno più disgraziato, 15 apparizioni in stagione) senza causare ululati.
Di fatto, il Milan di Allegri è sembrato in sintonia più con questo partito che con quello degli stilisti, puntando più sui muscoli e sui guizzi (anche Robinho e Cassano, ricordiamolo, hanno avuto un loro perché) che sul gioco. Certo, tutto è andato bene quando all’ombra del muscolare più geniale del mondo, Zlatan, i meno geniali Boateng o Nocerino hanno potuto giovarsi sia di forma fisica che di lucidità. Ma in seguito, quando Ibra e Thiago hanno salutato, la crisi della meravigliosità è apparsa in tutta la sua nettezza, anche perché non si era riusciti a trattenere un singolo pensatore. E con tutte le cose cruente che potremmo dire sul nostro presidente, è difficile sostenere che lui faccia parte degli amanti dei giocatori “fisici”: i suoi incapricciamenti, da Borghi a Rivaldo, da Dinho allo stesso Pato, sono quanto di meno pragmatico al mondo. E proprio nei periodi di mestizia finanziaria, è difficile scordare che per elemento tecnico intorno al quale far ruotare la squadra, mister Allegri pensava a Lazzari.

Quindi, il caso Kakà porta alla luce la fine dell’unità filosofica dei tifosi rossoneri. Kakà, nel bene e nel male, è quanto di più lontano da Balotelli.
(che noi amiamo dal dì della maglietta color tristezza gettata a terra, ma che rimane un giocatore concettualmente interista, a differenza di Sheva e Van Basten, tipicamente milanisti)
Kakà verrà immediatamente, mourinhescamente crocifisso dai pragmatici tutte le volte che non azzannerà il pallone, cosa che gli capiterà, per indole, il 99% delle volte. Che poi, sia chiaro, i pragmatici non sono innamorati di De Jong (beh, alcuni sì). Quasi tutti gli appartenenti a tale corrente di fatto contestano certi giocatori non in quanto “muscolari”, ma perché di basso livello. Tant’è che c’è in giro molta gente che sta idealizzando un tantino troppo il buon Van Bommel: la cosa dipende parecchio dall’aver constatato che il profeta in campo del tecnico livornese pare proprio Muntari.
(ex interista) (…no, così per dire)

Ma alla fine, al di là delle dispute sul fatto che questi siano i giocatori che passa il convento e nel contempo che l’allenatore non sia tipo da fantasisti o talentini, resta il fatto che il partito del possesso palla e delle geometrie ancelottiane oggi non è più in chiara maggioranza: molti milanisti sono diventati allegristi nella segreta speranza di vedere un calcio più fisico, forse persino di veder “mangiare il prato” come fanno gli infoiati di AndonioGonde.

Non è illegittimo, però è strano. Perché il Milan, da Liedholm in poi (ultimo scudetto con Rivera) non è la squadra del coltello tra i denti, e infatti molte volte ha perso alla grande proprio per questo.
(sì, quelle partite lì)
E’ la squadra del coro, del collettivo, e molte volte ha vinto alla grande proprio per questo.
Ma naturalmente, quando si dispera di vincere in quel modo, e si vedono gli altri che sbavano sul pallone, si comincia a pensare, ripetiamo, legittimamente, che ci sono più modi di vincere. Ecco allora che il ritorno di Kakà lancia la sfida più estrema. E’ un ritorno che ha a che fare col cuore, coi ricordi. Ma anche con la nostalgia di un Milan elegante eppure vincente.
Probabilmente, dall’esito del suo ritorno, dipende il proseguimento della mutazione in atto nella tifoseria milanista, la vittoria dei palati fini o quella dei concreti. E’ un po’ uno scontro finale. Atene contro Sparta.
(…oppure Aliens contro Predators)

Noi?
D’accordo, sbilanciamoci. Noi, con il cuore, siamo sempre, testardamente, per la magia.
Ma è anche vero che il cervello sa che i tempi sono quelli che sono, e le magie bisogna potersele permettere.
E comunque: Milan.

6 Risposte a “A proposito di Kakà e di tutto quello che siamo”

  1. beh, COMPLIMENTI ! non ce che dire articolo molto bello. solo una cosa, il “partito dei “mourinho” non e poi cosi grande. solo si sentono di piu adesso.

  2. Io il Milan del possesso palla lo ODIAVO, il che non mi fa schierare con i muli lobotomizzati. Il Milan di Sacchi era di cinque spanne sopra gli altri in termini di classe. Ma era anche prepotente fisicamente, con i tre olandesi: Gullit a Napoli nel 3-2 è l’emblema di una superiorità fisica schiacciante quando dà 2 metri a Bruscolotti (credo) in un semplice dribbling e mette in mezzo l’assit del gol.
    Quello è IL Milan.

  3. Mourinho? Fantastico interprete dei giocatori di talento, senza dubbio. Meraviglioso il suo lavoro con Balotelli, per esempio. L’esemplificazione fisico-calcistica del detto ‘far più danni della grandine’. L’Inter che si trovò Mourinho era perfino troppo meravigliosa per i suoi parametri.

  4. L’inter di Mourinho aveva eliminato giudiziariamente le avversarie: comodo avere 5 anni di tempo, in Italia, per preparare in tutta calma l’assalto alla Champions (l’unica in 45 anni).
    Detto questo, noi in quella fase ci siamo anche eliminati da soli, visto che dopo la vittoria nella Champions del 2007, con gli stessi giocatori che chiedevano rinforzi “per restare i n.1 in Europa e tornare all’assalto dell’inter n Europa”, i pigmei della società portarono a casa Emerson e Bonera.
    Berlusconi schiatta

  5. Se c’è un motivo per il quale mi sono fatto simpatizzante del milan, pur venendo dalla stesa fine del mondo del papa Francesco, visto che tanti miei concittadini si trovano nella parte scura di Milano, è senza dubbio la aspetto estetico di questo gioco perché almeno per me non conta solo il risultato. D’altronde come tifoso del CLUB ATLETICO INDEPENDIENTE, la squadra più titolata d’America seria incoerente che mi piacesse un’altra squadra italiana.

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