Credo che la sconfitta nell’ultimo derby sia stata elaborata dai tifosi rossoneri più o meno come è stata metabolizzata la distruzione di Alderan dai suoi abitanti, e mi riferisco a quegli abitanti che ci si trovavano sopra mentre la Morte Nera la riduceva a pochi granelli di pulviscolo.
Nei giorni successivi, per ingannare l’attesa e la tensione in vista del match contro la Stella Rossa, ha fatto capolino, come sempre più frequentemente ama fare, Massimiliano Mirabelli, rivelando avvincenti aneddoti del tipo “eravamo a un passo da Messi ma poi abbiamo preso Kalinic”. Su questa nostra vecchia conoscenza ho maturato una mia personale teoria. Esiste un Universo parallelo nel quale un Massimiliano Mirabelli dalla forte inflessione altoatesina, dopo essere stato morso a tradimento da un direttore sportivo bravo e un po’ radioattivo, ha portato al Milan i migliori giocatori sulla piazza rendendola la squadra più vincente della sua generazione. Il Massimiliano Mirabelli del nostro Universo ha invece portato al Milan Ricardo Rodriguez. Mentre Paolo Maldini, spesso oggetto degli strali di Mirabelli, ha portato al Milan Theo Hernandez. E questo parallelismo dona un’importante lezione di vita a tutti coloro che vorranno diventare direttori sportivi di un club di serie A: non tutti i terzini sinistri che finiscono con “ez” sono forti. Cullati dalle lepidezze del nostro ex direttore sportivo, siamo infine tornati tra le mura amiche di San Siro per affrontare il nostro antico avversario proveniente da Belgrado.
Il fatto che la partita fosse in prima serata mi ha evitato di angustiarmi durante l’ascolto della radiocronaca al volante della mia auto; mi ha invece permesso di angustiarmi su un più confortevole divano, davanti alla televisione. Non è un paragone tra radio e televisione, non mi permetterei mai – ma tra sedile dell’auto e divano.
Se mi concedete una digressione a dimostrazione del mio sincero e incondizionato amore per la radiofonia, vi metto a parte di un aneddoto che mio nonno ha amato condividere con me quando ero un bambino, mentre mi parlava delle prime radiocronache sportive. L’episodio, che ho trovato evocativo più degli altri sulla forza epica del racconto “tramandato oralmente” delle partita di calcio, era quello che vedeva un terzino del Bari spezzare, con un tiro poderoso (non allarmatevi, a questa parola non comparirà il logo dell’Istituto Luce), la traversa della porta avversaria.
Terminata appena in tempo la digressione proustiana (e confesso di non aver mai letto Proust come il novanta per cento delle persone che lo citano) prima della partita non ho potuto non pensare alla famosa, o famigerata, nebbia di Belgrado. Anche questo fenomeno, a seconda del punto di vista da cui viene colto, può assumere contorni diversi. Quando ne parlano i nostri pedanti dirimpettai, siano essi quelli che sembrano perennemente listati a lutto o quegli altri decolorati, il racconto è avvincente come la lettura di una visura catastale, preferibilmente in ginocchio sui ceci. Non c’è paragone con quello che potrebbero raccontare se dall’Olimpo per volontà degli dei fosse calata una nebbia per propiziare la vittoria dei loro eroi favoriti. Per quanto riguarda noi, anche senza abbandonarsi a voli pindarici ma semplicemente rammentando la cronaca storica, Belgrado e la Stella Rossa risultano significative. Il nostro amato Zvone venne immortalato il 13 maggio 1990, mentre difendeva un tifoso della Dinamo Zagabria dall’aggressione di un poliziotto serbo, episodio che lo costrinse a darsi alla macchia perché ricercato dalla polizia jugoslava.
L’allure di questa sfida, nell’Anno Domini MMXXI (vediamo se vi siete davvero meritato il motorino che vi hanno regalato per la maturità) è meno accattivante. Prigionieri della ciclicità del tempo e dell’Eterno Ritorno, incontriamo una vecchia conoscenza, e non mi riferisco a Nietzsche, che pare non abbia mai giocato in serie A, ma a Dejan Stankovic il cui aspetto è ormai raggelante sintesi tra un giostraio delle Varesine e un Dave Batista fuori forma. Ma rimuoviamo per un attimo dalla nostra mente le immagini del figuro in questione e pensiamo a come possa essere significativa la data del match. Si tratta del 25 febbraio (ok, niente numeri romani ma tanto il motorino non ve lo chiederanno indietro), che è crocevia di due episodi fondamentali delle cronache rossonere.
Il primo, Milan-Juventus, 25 febbraio 2012: goal fantasma di Muntari, la prova che l’unico essere umano in grado di confermare o ribaltare un risultato, con buona pace di Alessandro Borghese, è stato Paolo Tagliavento.
Il secondo, 25 febbraio 1999, nascita di Gianluigi Donnarumma, detto Gigio.
Due congiunzioni astrali che hanno trasformato San Siro in una specie di Stonehenge.
Il Milan ha sofferto, noi tifosi abbiamo sofferto. Anche il mio divano ha sofferto.
Con tutta probabilità, è stato più facile per Mario Draghi costruire un di Governo che facesse convivere Lega e M5S (slurp!) che per il Milan avere ragione di una squadra di dopolavoristi, per giunta con un uomo in meno per buona parte del secondo tempo. Al triplice fischio, Dalot è riuscito a catalizzare i nostri peggiori insulti per un calcio d’angolo regalato che poi neanche è stato battuto, primo caso di disprezzo per una “cazzata mai nata”, roba da poeta simbolista francese. Non fosse che, anziché citare Paul Verlaine, semplicemente avremmo tutti voluto farlo a pezzi.
Siamo vivi, abbiamo passato il turno. Ma c’è un ultimo dettaglio.
Il turno non lo abbiamo passato al triplice fischio. Noi il turno lo avevamo già passato al 67’. Nell’ora più buia, anzi, nel minuto più buio, mentre San Siro era assediato come Grande Inverno dagli Estranei durante la Grande Notte, i morti camminavano (e ogni riferimento a Dalot è voluto), in quel momento Gigio Donnarumma si è ricordato di quando, piccolo Pulcino del Milan (probabilmente già alto almeno un metro e ottanta e con barba fluente) era stato affidato alle amorevoli cure del più grande spadaccino di Braavos. In quel minuto eterno, il dio della Morte, assunte le insolite sembianze di Sanogo ha tirato a colpo sicuro – ma Gigio, mentre si produceva in un prodigioso colpo di reni, ha rammentato quanto gli era stato insegnato tanti anni fa. Sapeva cosa occorre dire al dio della Morte. “Not today”.
(Lucio Alfonso Liguori)