Crollati insieme, il 7 dicembre, Santambroeus. Che ghiotta coincidenza: ci si sono buttati tutti a pesce, dall’autorevole Massimo De Luca all’inutile Massimo Mauro. A noi in realtà la prima cosa che colpisce è che quelli proprio non riescono a non imitarci: l’ansia competitiva nei nostri confronti ce l’hanno come motivazione esistenziale fin dalla fondazione.
Però qualcosa non torna nella città-locomotiva. Il duo genovese e quello romano funzionano meglio, quello torinese ha gli stessi punti (48) ma con ambedue in Europa, solo le due veronesi sono più in basso in classifica. E’ il caso di parlare di un qualche male cittadino, o è un pretesto per opinionisti? Proviamo a vedere.
1. La pancia piena
Difficile “stay hungry” per tutto l’ambiente, dai tifosi ai dirigenti ai giocatori agli allenatori ai magazzinieri. Tra il 2007 e il 2010, sono arrivate due Champions (se è successo in altre città, informateci); tra il 2004 e il 2011, dice l’albo d’oro, tutti gli scudetti sono venuti qui. Non stiamo parlando di 300 anni fa, nonostante i de profundis delle capocce parlanti. Con quanto si è vinto a Milano negli ultimi 20 anni, si sazierebbero gli appetiti più voraci. La fame, la voglia di “mangiare l’erba” contiana è stata difficilmente applicabile – specie da due rose che soffrivano da un lato del burnout dopo l’isterica esasperazione mourinhana, dall’altro di una tendenza a un compassato narcisismo, accentuato in molti elementi dall’età: emblema di questo mood è Andrea Pirlo: nonostante un contratto lusinghiero, a Milano non ha mai (mai) giocato con la voglia mostrata nel suo nuovo stadio ululante. Scegliere giocatori come Torres, da questo punto di vista, ha significato trascurare questo aspetto: la VOGLIA. Un’iniezione salutare in questo senso erano stati Rami e Taarabt. Intendiamoci: la combattività guerriera non è un valore in sé, come dimostra Muntari, e il piglio dei galletti si esaurisce presto, come dimostra Boateng. Quel che è certo è che l’insonnia da sconfitta dei Baresi e dei Van Basten questi ragazzi proprio non ce l’hanno.
2. La maglia e la città
Un tempo le squadre milanesi avevano una forte impronta milanese-lombarda anche tra i giocatori. Facchetti, i Maldini, Rivera, Mazzola, Bergomi, i Baresi, Galli, Donadoni erano uomini che anche se non nati fisicamente in città, ci andavano a nozze per come si specchiavano nella sua anima un po’ beghina, quella voglia magari un po’ patetica di pensarsi gente seria che lavora e belongs to Jesus, lei e i suoi danée. Sì, quelli con la vocazione alla bella vita CorsoComica, gli Zenga, i Costacurta, i Nicola Berti non mancavano, ma c’era sempre chi li riconduceva a ragione, e alla fine sulla loro professionalità era difficile eccepire.
Le cose sono cambiate con i bad boys di nuova generazione, il cui antesignano è stato forse Bobo Vieri. E il cui apogeo è Mario Balotelli. Capendo che il fatto di fiocinare modelle, veline e presentatrici tv poteva portargli visibilità e contratti quanto la resa sul campo, i calciatori della seconda metà degli anni Novanta hanno iniziato a puntare su Milano per l’abbondanza di media e di mona. Legandosi molto poco sia alla città che alla maglia. Non c’è nessuna identificazione personale con la città e la sua gente, viste come vaccone da mungere. Come la maggior parte dei giovani professionisti che viene qui e non si fa prendere fino in fondo (anzi appena possono gettano guano su Milano), sfruttano città e squadra dando pochissimo in cambio.
La vicenda Kakà contiene degli elementi emblematici. Lui, da vero paolotto, peraltro di San Paolo, a Milano si era sentito a casa. La stessa cosa era capitata con Van Basten. Con ricadute positive sul più irrequieto Gullit: all’inizio dei 90 capitava tranquillamente di incontrarli per strada – e senza entourage, era normale. Oggi, passa un Balotelli, la gente corre da lui a farsi i selfie e lui si atteggia a padreterno.
3. Il vivaio
Le considerazioni precedenti ci portano alle rose. Non sono inferiori a molte delle squadre che stanno loro davanti. Come peraltro quelle di cui disponevano Allegri e Mazzarri. Peraltro, è preoccupante vedere certi allenatori che vanno via e ottengono risultati superiori al preventivabile. Chiaro, ritrovarsi la rosa più competitiva d’Italia aiuta – quindi invece che di Allegri parliamo di Stramaccioni e Gasperini, mandati via con rancore. Ma per quanto riguarda il Milan, che l’ex allenatore della Primavera abbia accettato di mandare via Cristante è significativo. Non staremo a menare il torrone su Cristante, anche perché Bonaventura, pagato grazie alla sua cessione, è un signor acquisto.
Però il segnale è chiaro: il progetto non c’è.
Milan e Inter sono diventate grandi coi giocatori cresciuti in casa propria, è persino inutile fare i nomi – molti li abbiamo già fatti nel punto 2. Oggi i padroni delocalizzano, come gli industriali brianzoli si rivolgono a maestranze straniere sottopagate (e sottoqualificate). Più che un problema economico (che i soldi negli ultimi anni li hanno ben buttati entrambe) pare un problema di impasse manageriale. Era facile fare i boss negli anni 80 e 90, con la Borsa che tirava e il consumatore che spendeva. Ma dalla crisi in poi, bang. Né Milan né Inter hanno saputo farsi trovare pronte a uno scenario diverso. E sono rimaste incatenate a Galliani e a un Moratti che non mollava mai del tutto. Ognuno con il suo giro di amichetti da sistemare. A essere ottimisti, si può pensare che gli spiragli in più apertisi per la Rampolla da una parte, e gli uomini introdotti a forza dall’indonesiano dall’altra (Fassone, ex Juve e Napoli, e Bolingbroke (Manchester Utd) rappresentino un po’ di fondamenta per il futuro. Perché i Grandi Vecchi, Dio li abbia in gloria, hanno concluso il loro rapporto con la Grandezza – e iniziato quello con la Pochezza.
4. La pressione.
Nonostante sia ormai relegata al rango di quarta città italiana, Milano è Milano, fedele al sempiterno motto “Lavoro-guadagno, pago-pretendo!”. E quindi tutti i suoi uomini di calcio (vedi punto 3) sono sottoposti a una pressione che in Italia ha eguali forse solo a Roma sponda giallorossa, con il suo venefico codazzo di radio neo-fasciste che parlano in libertà. Lasciando perdere Leonardo e Seedorf che allenatori non sono e probabilmente non hanno alcuna intenzione di esserlo, negli ultimi tre anni Milano ha impallinato senza pietà – a torto o a ragione, lo vedremo – gente che quest’anno sta dimostrando di saper fare decorosamente il proprio lavoro. Allegri è stato disastroso almeno nel suo ultimo anno e mezzo al Milan, ma in uno spogliatoio in cui razzolavano i Raiola, i Robinho e i Constant. Benitez e Gasperini sono stati divorati da da Moratti, Gasp in particolare sacrificato sull’altare di una difesa a quattro poi messa in soffitta una volta preso Mazzarri a 3,5 milioni all’anno. E del resto la pietra tombale di Mazzarri è stata quella mezza frase infelice sulla pioggia, smozzicata a bassa voce in un’intervista tv a caldo, che sarebbe scivolata via se avesse allenato la Sampdoria o il Torino. Persino Stramaccioni, che oggettivamente sembra tuttora un impiastro, almeno a Udine può lavorare con quella tranquillità che gli è sempre stata negata a Milano, anche quando vinceva allo Juventus Stadium e la Gazzetta scriveva di “STRAMOUCCIONI”.
5. La cialtroneria
Tipica della peggior Italia e di conseguenza della peggior Milano, che aumenta proporzionalmente con la diminuzione dei dané e si sublima nelle frasi a effetto da “ganassa”, che mandano in sollucchero tv e giornali, alla costante ricerca del Mourinho perduto. Inzaghi che prima del Genoa proclama che “è difficile essere più forti di questo Milan” e poi non fa un tiro in porta in tutto il secondo tempo è un ottimo esempio. Ancora migliore quello offerto da Roberto Mancini, che di questa cialtroneria è sempre stato uno dei portabandiera, già all’epoca in cui Milano era ancora felice. Arriva, dice che l’obiettivo è il terzo posto e ripete di continuo che lui è venuto a Milano per vincere, perché dovunque è andato lui ha sempre lottato per vincere; poi la sua squadra, evidentemente inadeguata a questi obiettivi, si squaglia sotto i colpi di Piris, Thereau e Bruno Fernandes. La cialtroneria è vieppiù deleteria perché porta dritti dritti al punto 4: frasi a effetto –> flop sul campo –> insoddisfazione –> esasperazione –> nuove frasi a effetto –> clima di psicodramma permanente.
Milano in questo momento è tutto fuorché “vicina all’Europa“, come cantava Lucio Dalla nel 1979 (anno del nostro scudetto della Stella, in cui la città iniziava a rivedere la luce dopo i cupi anni ’70). Anzi, al momento sarebbe proprio fuori dall’Europa, circostanza che non capita – uhm – fateci pensare – no, a ben vedere non è mai capitata nella storia delle Coppe Europee. In un certo senso, è l’unica maniera in cui quest’anno Milan e Inter possono passare alla storia.
Sdraiati sull’erba
Soltanto un attimo prima
Di fare l’amore.
Un grillo che canta,
C’è un’aria bellissima intorno… Che odore!
Pian piano riprendo a sfiorare la sua sottana…
Sarа la zona…