“E’ possibile che Clarence abbia conquistato del tutto Berlusconi proprio in una serata di sei anni fa cantando Bob Marley. Era notte fonda nel ristorante del giocatore, si festeggiava la vittoria sul Manchester Utd e la conquista della finale di Champions. Berlusconi e la sua corte si godevano la bella voce di Clarence, ma al quarto pezzo di Marley il presidente disse: ‘Si potrebbe passare alla musica italiana?’. E via tutti insieme a cantare Lucio Battisti.”
(Alessandra Bocci, Gazzetta dello Sport, 28 maggio 2013)
Seedorf. Ma perché? Ma come? Cosa ci impedisce di avere un allenatore, come certe sciocche compagini che si chiamano Bayern, Borussia, Barcellona, Real, e persino la Juve, che possiamo anche sputarci sopra – anche adesso – ma ha pur sempre vinto 142 scudetti? Non ci è bastata l’esperienza elettrizzante con Leonardo? Che poi, il Giuda IsCarioca perlomeno aveva trascorsi brillanti di dirigente e uomo-mercato con libertà d’azione sul mercato brasiliano.
Fuori dal (centro)campo, chi è Clarence Seedorf? Di sicuro un uomo intelligente, più colto della media dei suoi colleghi. Ma al di là di un’esperienza nel Motomondiale come proprietario di una scuderia dal 2003 al 2007, il suo unico incarico di responsabilità si è concluso con un flop epocale: il triennio da dirigente del Monza a capo di un imprecisato Comitato Tecnico con poteri decisionali che deteneva l’88% delle azioni del club. Il Monza fu rimpinzato di familiari (il fratello Chedric e il cugino Stefano) e altri amici (il suo avvocato Pierangelo Mainini alla vicepresidenza e l’olandese Westerveld in campo – qualcuno lo ricorderà portiere del Liverpool nei primi anni Zero). La perla della sua gestione arriva quando c’è da scegliere il nuovo allenatore al posto dell’esonerato De Petrillo: l’ambiente spinge per la gloria locale Fulvio Saini, ma Clarence vuole l’olandese Gerard van der Lem, assistente di Van Gaal nell’Ajax anni ’90. Il Consiglio d’Amministrazione vota e a sorpresa la spunta la mozione-Saini per 3 voti a 2, compreso il voto di Mainini. A quel punto, invece di accettare la decisione, il Comitato manda una mail al presidente Salaroli in cui gli chiede di non approvare le decisioni del Consiglio e aumentare da 5 a 7 dei componenti del Consiglio. E’ un modo di fare che vi ricorda qualcuno? Per protesta si dimettono Mainini, il presidente Salaroli e il consigliere Zangari. Da quel giorno, menu fisso sugli spalti dello stadio Brianteo: solidarietà ai dimissionari, pernacchie assortite all’uomo del Suriname. Non è successo tanto tempo fa. Era il 2011.
E veniamo perciò al vero tormentone che ci tormenta: uno dei grandi classici dei 27 anni del Cavaliere, nonché uno dei miti fondanti del berlusconismo, è “Il Presidente capisce di calcio come pochi”. Ma è vero?
PUNTO DUE.
Il fatto è che esistono due Silvi Berlusconi. E’ tipo Plinio: abbiamo Silvio il Vecchio e Silvio il Giovane.
A dimostrazione del teorema si citano intuizioni folgoranti del secondo, come il colpo di fulmine per Sacchi o l’ingaggio di Capello che fino al 1991 si era più che altro distinto per una brillante carriera da manager.
Però, un momento. Sacchi e Capello erano diversissimi, come storia personale, come esseri umani, come gioco praticato. Con quale coerenza di “intenditore di calcio” ha potuto Silvio il Giovane passare dall’uno all’altro? Quello è stato il primo momento in cui lo abbiamo visto giocare il jolly, dirci: “Questo è bravo perché lo scelgo io. E se non lo è, lo diventerà perché lo scelgo IO“. Glielo avremmo visto fare poi come politico, elevando a ministri gente come Cesare Previti, Giuliano Ferrara e Mara Carfagna (che poi, meglio lei che Gasparri, sempre e comunque). Capello fu subito etichettato come yes-man. Quando fu messo alla porta si capì che di yes ne diceva sempre meno.
Tuttavia dopo Sacchi la diffidenza di Silvio il Giovane verso gli allenatori patentati sarà una costante. Non si sa se è lo smacco subito per il secco “no” sacchiano al fumoso Claudio Borghi, pupillo berlusconiano sacrificato a Frank Rijkaard, preteso dall’Arrigo. Ma è un fatto che Silvio, sempre meno Giovane, ha detestato gli allenatori ingaggiati da Galliani: Zaccheroni, Terim, Tabarez, Allegri. Diversi tra loro, ma accomunati dal fatto di non essere stati inventati da lui. Ancelotti, invece, è assimilabile al primo Capello: una soluzione interna da lui caldeggiata, sottoposta a breve rodaggio.
Il maggior dibattito pubblico sulla competenza berlusconiana avvenne nel 2000, quando per accattivarsi qualche elettore sparò a zero su un allenatore che non era nemmeno il nostro – quando la Nazionale di Zoff perse l’Europeo con la Francia a 20 secondi dalla fine: “Anche un dilettante avrebbe capito che Zidane andava marcato a uomo da uno come Gattuso. Le scelte di Zoff sono state indegne. Il problema è che uno ha l’intelligenza o non ce l’ha“. Molto piccato, pure troppo (all’epoca, stranamente, il nostro Napoleone NON era premier), invece di far notare che Zidane non aveva quasi inciso sul match, Zoff prese cappello e si dimise.
Il momento in cui definitivamente Silvio il Vecchio subentrò a Silvio il Giovane fu nel 2004, dopo il celebre derby vinto 3-2 in rimonta con gol di Seedorf (toh!). “Chi allena il Milan deve schierare sempre due punte“, strigliò Ancelotti. Il quale, da furbo contadino, sorrideva al padrone e poi faceva di testa sua, come ha svelato Costacurta: “Il presidente chiedeva di far giocare Kakà più avanti e Ancelotti diceva di sì. Ma a Kakà, diceva: dopo i primi 5 minuti mettiti più indietro“. Chi segue il calcio sa com’è andata a finire: sabato sera le due finaliste di Champions League giocavano entrambe con il 4-2-3-1, ma se improvvisamente Jurgen Klopp si presentasse davanti a Berlusconi pronto a firmare, il Presidente difficilmente gli parlerebbe di moduli: gli chiederebbe di tagliarsi la barba, salvo poi sostenere da Vespa o Biscardi di avergli imposto la formazione.
L’ultimo tentativo di Berlusconi di cimentarsi col calcio moderno ha prodotto disastri: nel gennaio 2012 eravamo a un passo dal rifilare Pato al PSG per 35 milioni, ma all’ultimo momento l’amor di babbo ha prevalso sulla logica di mercato.
E adesso, eccoci a Seedorf. Emblema della distanza siderale tra Silvio il Giovane e Silvio il Vecchio.
PUNTO TRE.
Sacchi era l’iper-allenatore. Quasi impresentabile al momento delle conferenze stampa, non bello, non simpatico, mai stato giocatore. Fateci caso: Seedorf è The Opposite of Sacchi.
Se potete ricordare il Milan pre-Berlusconi, anche da avversari politici non potete negare che l’entusiasmo (e megalomania) di Silvio il Giovane ci facevano brillare gli occhi. Non era solo questione di avere una squadra forte. Erano quel gioco, quegli uomini, quel coraggio, quell’eleganza. Tutto funzionale alla grandeur berlusconiana, ma perbacco, funzionale anche a noi. E solo a noi, in quanto NOI. Pellegrini, Moratti, Agnelli, a parità di denaro, non fecero le stesse scelte. Silvio il Giovane non diede solo vittorie ai milanisti. Gli diede la possibilità di dire “Siamo belli come il sole”, come ci sentivamo anche in serie B, come invocava un Milan Club indimenticabile, presente a San Siro anche nei tempi brutti.
Ma Silvio il Vecchio è ben altro uomo. Dello spettacolo, come del miracolo italiano, non gli frega più niente. Si vince? Bene. In qualunque modo ciò avvenga. Si perde? Colpa degli altri. Chi se ne frega. Ha altro a cui pensare (ad esempio, sfuggire ai giudici). Per quanto incredibile possa risultare, Galliani è forse rimasto l’unico a contraddirlo: il “Pres” è circondato da lacchè che lo assecondano in qualsiasi bizzarra smania, compresa quella di essere il più grande esperto di calcio sulla piazza, come i vecchietti al bar che compulsano la Gazzetta mentre prendono il caffè corretto con la sambuca. Se provocato, tira sempre fuori la vecchia tiritera dell’Edilnord per cui era già stato perculato trent’anni fa dal Barone Liedholm. Nel suo piccolo mondo antico, la gente è da Milan se è appariscentissima: Rivaldo, Ronaldinho. E merita di allenare il Milan o diventare deputato se sta bene in giacca e ha parlantina. E possibilmente se non è un allenatore. Ecco perché Clarence sta per diventare il prossimo allenatore del Milan. E ringraziamo che non sia Michela Brambilla.
Forza presidente, prenditi una rivincita e metti Claudio Borghi in panchina, almeno fa l’allenatore…
Ops, dimenticavo. Non sa cantare.