Erano undici anni che a febbraio, in cima alla Liga, non sedeva una squadra diversa da Barcellona e Real Madrid: nel 2003 toccò alla Real Sociedad allenata dal francese Raynald Denoueix, che poi si scoprì drogatissima e abituale cliente del dottor Fuentes. Poi solo Barça e Real, Real e Barça (con l’eccezione del Valencia di Benitez che nel 2004 prese la vetta solo nell’ultimo mese). Finché è arrivato il Cholo (dall’azteco Xoloitzcuintli, “meticcio”) che in queste settimane sta picconando tonnellate di luoghi comuni sulla monotonia del calcio spagnolo.
Anche l’Atletico quest’estate ha dovuto fare i conti con la feroce crisi economica che sta dilaniando la Spagna, cui solo Real e Barça sembrano immuni con i loro giganteschi fatturati e i loro bilanci spericolati. Falcao è stato venduto a peso d’oro al Monaco, così come Salvio e Alvaro Dominguez l’anno prima, così come De Gea e il Kun Aguero nell’estate 2011. Simeone lo sa e ci gioca: “Il mio Atletico Madrid è la speranza in tempi difficili. Noi diamo fiducia a chi lavora con mezzi limitati e lotta contro qualcosa di più grande partendo da basi limitate“, per poi smorzare: “Non abbiamo alcuna chance. La Liga è noiosa, è sempre un affare per due. Lo dicono i bilanci“. Nel 2012 il Real Madrid ha fatturato 512 milioni, e il Barça 483; l’Atletico 107,9 milioni, poco più del costo del cartellino di Gareth Bale.
Analizzare l’Atletico Madrid di Simeone è molto , semplice: utilizza sempre gli stessi 15-16 giocatori, con il tecnico che tende anche a ripetere le stesse sostituzioni. Dopo qualche mese di alternanza con un classico 4-4-2, nelle ultime partite il Cholo sembra essersi orientato a un più brillante 4-2-3-1. In porta gioca Thibaut Courtois, che in realtà è di proprietà del Chelsea da tre anni ma viene sempre tenuto a bagnomaria a Madrid, perché Cech non si sogna nemmeno di levare le tende; è il portiere titolare del Belgio, la Nazionale più à la page del momento, favorito sul collega Mignolet che al Liverpool sta facendo bene ma non benissimo.
La difesa a 4 è blindata: i titolari indiscussi sono Filipe Luis, Miranda, Godin e Juanfran. Non c’è stato quasi mai spazio per il belga Alderweireld, che pure è costato 7 milioni e per molti è uno dei giovani difensori più interessanti d’Europa. Filipe Luis è un terzino sinistro brasiliano ben poco brasiliano, nel senso che non è uno stordito che si dimentica di difendere come molti suoi illustri connazionali (forse grazie ai geni polacchi per parte paterna); Simeone lo tiene molto più bloccato rispetto alla media. La coppia centrale è collaudatissima e ha il punto di forza nel 29enne Joao Miranda, che oggi possiamo considerare uno dei primi 5 difensori centrali al mondo (gli altri: Thiago Silva, Piqué, e poi uhm… Kompany? Benatia?). Carismatico, fortissimo di testa, capace anche di fare male in attacco come ben ricorda Mourinho, purgato a domicilio lo scorso maggio nella finale di Coppa del Re giocata al Bernabeu, l’equivalente madrileno de “la coppa in faccia” esibita dai laziali ai romanisti. Il suo compare è Godìn, cagnaccio uruguaiano che si fa carico del lavoro sporco con tigna degna dei suoi più illustri connazionali: anche lui non disdegna di farsi vedere nell’altra area. Terzino destro è Juanfran, un passato al Real prima di una lunga gavetta all’Osasuna, che ha maggiori attitudini offensive grazie anche ai suoi trascorsi da ala destra e a volte è stato decisivo come per esempio nella sofferta vittoria contro il Levante, in cui ha servito un assist e si è procurato il rigore del definitivo 3-2. Va detto che nessuno di loro è un giovincello: è tutta gente arrivata ai massimi livelli a 28 anni e più, e quindi ok il sudore e il lavoro che paga sempre, ma ci sale il dubbio che, nell’occorrenza, sarebbero disposti a regalare un rene a Simeone. E va detto anche che l’Atletico, nonostante il forte temperamento del loro conducator, non è affatto una squadra di picchiatori: tra i primi 30 giocatori più sanzionati della Liga troviamo un solo colchonero, Filipe Luis, unico espulso dell’annata.
La coppia di mediani è variabile, ma ha una certezza: Gabriel Fernandez Arenas detto Gabi, il capitano, trent’anni e mai l’ombra di una convocazione in Nazionale (questa è un’altra costante dei giocatori spagnoli dell’Atletico, quasi tutti irrilevanti con la Selecciòn, quasi tutti tenuti ai margini dall’impero del Tiki-Taka), il pupillo del Cholo. Anche lui è stato preso da una squadra di secondo piano, il Real Saragozza, ma con Simeone è cresciuto tanto da diventare il perno centrale della prima squadra del campionato. Al suo fianco si alternano l’ex juventino Tiago, 32 anni di cui due e mezzo vissuti da ectoplasma alla Juve, tornato un giocatore presentabile a Madrid, e Mario Suarez, che nelle ultime settimane ha preso il sopravvento.
E veniamo alla trequarti, dove ci si sbatte non poco e infatti è il reparto a cui quasi sempre Simeone mette mano a partita in corso. Il primo titolare indiscusso è il Guaje, David Villa, con cui il Cholo ha fatto una mossa alla Nereo Rocco, come quando il Paròn si faceva comprare giocatori apparentemente finiti con cui puntellava le proprie squadre vincenti (Kurt Hamrin, ma non solo). Dato per bollito un po’ in tutta la Spagna, nonostante ci avesse castigato in Champions meno di un anno fa (ancora grazie Constant), finito ai margini del nuovo Barça di Martino e ovviamente rigenerato da Simeone, con cui ha finora viaggiato alla rispettabile media di 11 gol in 22 partite. Poi c’è il barbuto turco Arda Turan, 27 anni, altra arma impropria nelle mani del Cholo, che si affida spesso alla sua verve sulla fascia sinistra. Quindi, in mezzo, Jorge Resurrecciòn Merodio, in arte Koke, il più giovane della compagnia con i suoi 22 anni, a volte schierato anche da mediano, abilissimo anche negli inserimenti con cui ha risolto partite rognose come quelle di Elche o Malaga. Ecco un’altra grande qualità dell’Atletico: il saper aspettare, spesso anche 60 o 70 minuti, forte della consapevolezza di avere una difesa quasi impenetrabile (ovviamente la migliore della Liga, zero gol subiti in due partite contro Barça e Real). Il tasso tecnico non eccelso della squadra non è un grosso problema, se gli fa da contraltare una determinazione brutale che li porta a fare male alla prima occasione disponibile. Per esempio sui calci da fermo, il regno di German “El Mono” Burgos, ex portiere anni ’90 e fedele assistente del Cholo dopo esserne stato per anni il compagno di stanza. Meticoloso inventore di svariati schemi su corner e punizione (fatevi un giro su Youtube per vedere in quanti modi diversi l’Atletico sfrutta i calci d’angolo), Burgos ha in comune con Simeone anche l’animo pugnace (“Io non sono Tito. Io ti stacco la testa“, ringhiò l’anno scorso in faccia a un Mourinho più querulo del solito, ricordandogli il precedente della ditata a Vilanova).
Il grande movimento richiesto ai tre trequartisti porta Simeone a fare i cambi intorno al 60′-65′, e di solito cambia loro: dentro Raul Garcia (grande fiuto del gol e spesso decisivo, come in Coppa del Re a Bilbao), Cristian Rodriguez, il talentuosissimo ma leggero Adrian o i due nuovi acquisti arrivati a gennaio, entrambi meteore del calcio italiano. Uno è il Principito José Sosa, un’annata dimenticabile a Napoli nel 2010-11; l’altro, ben più illustre, è quel Diego che alla Juve dopo due partite tutti definirono il nuovo Kakà, salvo immalinconirsi e non capirci più niente nel tourbillon di cambi di modulo e di posizione cui lo sottopose Ciro Ferrara. Con Simeone, altra musica: “E’ il più grande allenatore che ho avuto, sono tornato all’Atletico solo per lui“. Scommettiamo che lo vedremo titolare a San Siro?
Ed eccoci al terminale offensivo, la summa del Simeonismo. Fino al 2012 Diego Costa era un ragazzone di origini brasiliane non particolarmente prolifico, che non era mai andato oltre i 10 gol a stagione. Prima di incontrare il Vate di Baires, naturalmente: destinato alla pesantissima eredità di Radamel Falcao, “el Animal” non ha fatto un plissé e ha cominciato a macinare reti, dimostrando una forza mentale impressionante (raramente sbaglia mira davanti al portiere) in tutti gli stadi, compreso il Bernabeu dove ha segnato il gol che oggi, a conti fatti, vale all’Atletico la vetta della Liga. Tecnicamente completo, tatticamente fondamentale – andate a vedere la partita di sacrificio giocata contro il Barcellona e scoprirete che si può essere un grande centravanti moderno anche senza mai tirare in porta.
Va da sé che, senza apparenti top player e senza neanche giocatori troppo futuribili (abbiamo visto come Courtois e Koke siano gli unici under 25 dell’undici titolare), al centro di tutto ci sia lui, el Gran Cholo. La saggezza e il carisma aumentano proporzionalmente alla lunghezza e all’untuosità della chioma, la mascella serrata e la concentrazione ferrea ricordano Capello, la pignoleria tattica con cui prepara i match-clou e la semplicità delle sue soluzioni (la ricerca costante della linea di fondo, per esempio) evocano il Mourinho delle grandi occasioni. Non è un istrione e non mira a esserlo, consapevole che non ne ha bisogno, come si conviene a chi è giunto a un livello tale che, se volesse, potrebbe imporre le mani ai giocatori per farli guarire dalle contratture, senza che nessuno avesse da ridire. C’è ancora il dubbio di come si comporterebbe in uno spogliatoio di all-stars come quello di Ancelotti, ma è un dubbio che sospettiamo verrà risolto molto presto. Tanto, oggi come tra vent’anni, al Calderon la maglia più venduta sarà sempre la 14 dei tempi del Doblete, annata di grazia 1995-96. La indossava un mediano argentino, Diego Pablo Simeone.