Sono anni di anniversari. E versiamo tutto l’anno. Lacrime versate per esprimere quanto ci mancano, di volta in volta John Lennon o Rino Gaetano, Pasolini che aveva capito tutto o De André che gli insegnanti con la barbetta impongono ai loro allievi. Piangiamo ultrà morti, piangiamo attrici porno, piangiamo fumettisti eroinomani, piangiamo… bòn, basta. Oggi si piange Gianni Brera. Giornalista, difensivista, pre-leghista, intrallazzone, consigliori di parecchi presidenti e dirigenti milanesi (e non solo: non di rado si insinuò anche nelle scelte della Federazione Italiana Giuoco Calcio).
E possiamo anche piangerlo, noi di ComunqueMilan. Ma non rimpiangerlo.
Lo abbiamo letto, certo. Perché Gianni Brera era come l’avversario carogna che si fischia perché si teme – ma questo non significa che lo si vorrebbe in squadra. Perché semplicemente non era possibile: Brera era più bauscia che cacciavite, a cominciare dal suo compiacimento per le citazioni dotte infilate nei pezzi a stupire il borghese, per il proprio stile forbito.
Che era appariscente soprattutto grazie al contesto: circondato da giornalisti sportivi mediamente gnucchi, emergeva senza difficoltà, cosa che non succedeva quando si cimentava con la scrittura vera (il libro “Il corpo della ragassa” si ricorda soprattutto per il film in cui Lilli Carati si mostrava con la consueta generosità). I suoi articoli si concludevano così: “Il 185° derby di Milano è finito. Ah, perché non son io co’ miei pastori”. Io, io, io, il fottuto io con cui oggi ogni mezza sega che scrive – in special modo di calcio e musica – cerca di incantare il lettore in un polverone di citazioni.
Ma quel che più ci interessa è che Brera fu antimilanista per vocazione, dalle polemiche con Rivera (a causa del quale sacrificò l’amicizia – e le bevute – con Nereo Rocco) a quelle con Sacchi.
Si trovava molto più a suo agio con la Milanona benestante morattiana, quella che non amava “quelli che venivano da fuori”. Perché Brera forse non fu razzista, ma sicuramente fu razziale: come il personaggio del Dr. Stranamore ossessionato dalla purezza dei sacri fluidi, nei suoi articoli mugugnava in continuazione contro la contaminazione meridionale del nord, ma anche su scala mondiale era più che esplicito (così rispondeva a un lettore: “Conosco a malapena i due nomi degli apostoli negri che lei cita: so che Luther King era un mistico e Malcom X un combattente. Tutto sommato, penso che abbiamo già troppi africani o affini da queste parti perché ci si debba occupare anche dei negri d’America”). E le sue ossessive teorie razziali resero Brera deleterio per il nostro calcio: il suo disprezzo per i mediterranei lo induceva a sentenziare: “Noi italiani giochiamo male perché siamo deboli. Ed essendo deboli dobbiamo continuare a difenderci. Con l’astuzia italica abbiamo vinto qualcosa, andando allo sbaraglio perderemo tutto”. E via di Primo Non Prenderle, del rischio minimo, di gioco avaro. Ricordava spesso, con malcelatissima soddisfazione, che gli arcigni uruguagi avevano battuto gli esteti meticci brasiliani intimidendoli: “Molla la palla, negro”.
Giocare bene? Giocare per il pubblico? Perché mai? “Non c’è ancora uno che dica: ragazzi, non vincete, non fate sforzi, basta il pareggio”, si lagnava. Questo perché ad esempio, come scriveva nel 1976, “Torino e Juventus non vincono il campionato. Lo metto per iscritto: se vanno avanti con questo ritmo non vincono. Forse nessuno al mondo ha ancora trovato il modo di ovviare a quell’inconveniente che ho intuito: che si muore di se medesimi”. E quindi, la Juventus piena di inaffidabili terroni e il Torino di Pulici (“con la sua faccia da vigliacco”) avrebbero dovuto frenare. Invece alla faccia della sua intuizione non lo fecero, e a fine stagione arrivarono prima e secondo a 51 e 50 punti, stracciando in un duello esaltante tutte le altre (Fiorentina terza a 35 punti). Per lui, eresia. Come quella di Sacchi. Ricorda oggi Gianni Mura su Repubblica che alla vigilia di una finale di Champions l’omino di Fusignano aveva appeso un pezzo di Brera sul muro dello spogliatoio. “Brera consiglia la solita partita attendista, primo non prenderle. Dissi ai miei: vogliamo giocare così?”. Gullit rispose: entriamo in campo e li massacriamo.
Perciò, ti sia lieve la terra, GioannBreraFuCarlo. Ma noi nesci, che ci vuoi fare, stiamo con Arrigo, stiamo col Tulipano Nero (Pallone d’Oro 1987), stiamo col “mercenario batavo” Van Basten (Pallone d’Oro 1988, 1989, 1992) e con “l’abatino” Rivera (Pallone d’Oro 1969 e Pallone d’Argento 1963). L’epopea di Lele Oriali la lasciamo volentieri a te e ad un rocker ingrugnito, come ogni buon interista. Noi, siamo poco pragmatici. Noi, siamo belli come il sole.
L’aneddoto sacchiano è formidabile.
assolutamente d’accordissimo…complimenti per quello che hai scritto e per come lo hai scritto
Bellissimo articolo