Il Giorno da Milan di oggi è un fantastico racconto di vita, calcio, tifo e famiglia di Enrico Camanzi, ambientato negli anni 90, ma soprattutto ambientato in un altro modo di vivere gli stadi, per il quale i più boomer tra noi coltivano un’inestinguibile nostalgia, forse ancora superiore a quella per le vittorie.
(comunque, nel caso, dovessimo scegliere cosa rivogliamo, pensandoci bene, non è la nostra gioventù: sono le vittorie) (chiacchieriamo tanto, ma alla fine siamo uomini grettissimi)
10 GENNAIO 1993
Jean Pierre Papin, i Furiosi che s’incazzano e la doppia calza
“Gli hai messo la doppia calza?”
Mia madre e mio papà. Insieme da quarant’anni e rotti. Mai uno scazzo duro, che io ricordi. Un mezzo miracolo. Lei, a vent’anni, militante del Fronte della Gioventù. Tradizione di famiglia, vero. Mica paglia, comunque. Lui gruppettaro, come venne ritratto da qualche giornale a metà anni ’70. Gruppettaro veniva da “gruppetto”, la definizione inventata dai media borghesi per descrivere i mille rivoli in cui si era spaccata la sinistra extraparlamentare negli anni ’70 (ricorda qualcosa?). Lotta Continua, Potere Operaio, Avanguardia Operaia, Servire il Popolo e decine di altri. Ognuno convinto di avere la ricetta ortodossa per abbattere il capitalismo e altrettanto convinto che dietro il vicino di banco si celasse un servo del potere.
Il rosso e il nero, insomma. Che, l’uno vicino all’altro, si sa, stanno un gran bene insieme. Ovvio che non potessi venire su altro che milanista.
Comunque sono io quello che dovrebbe indossare la doppia calza. Non io solo. C’è anche mio fratello. Nemmeno sette anni allora, lui, mentre io andavo per i quattordici. Mamma si raccomanda di coprirci bene perché 1. è gennaio 2. ci stiamo preparando per andare allo stadio. Milan-Cagliari. È il Milan di Capello. Quello della controriforma. Abbandonata l’ossessione sacchiana per il pressing, ci siamo messi la corazza e l’anno precedente siamo tornati a cucirci il tricolore sul petto, dopo le vittorie dei “nati dopo, nati male” con il record di punti; il furto del Napoli, cucinato dalla coppia Alemao-Carmando e messo in tavola da Lo Bello e la scorribanda dei ciclisti di Genova.
Nel 92-93 Berlusconi ha calato tre assi sul mercato: vestono il miglior outfit che si possa vestire su un campo da calcio Dejan Savicevic, Jean Pierre Papin e Gigi Lentini, l’ala pagata al presidente socialista del Torino Borsano con i fondi neri che – de facto – finirà la sua carriera per colpa di un ruotino.
Allo scontro con i rossoblù arriviamo lanciatissimi. Quel Cagliari di Carletto Mazzone, però, non è niente male. Del trio uruguaiano Herrera-Fonseca-Francescoli ha perso il secondo, finito al Napoli. L’ha rimpiazzato con Lulu Oliveira, alla prima tappa di un lunghissimo giro d’Italia che lo porterà a incanutire i riccioloni su campi polverosi tipo Tortona o Nuoro. In porta c’è l’avvocato Ielpo, futuro secondo rossonero e ancora più futuro opinionista, sempre milanista, per le tv private. Sulle fasce stantuffano e aggrediscono due cagnacci come Pusceddu e Cappioli. Dirige l’orchestra il tamburino Matteoli.
Quel Milan, però, è un carro armato. E mentre rassicuro con un filo di fastidio mia madre che sì, la doppia calza ce l’ho, sto pensando quanti gol infileremo al Cagliari quel giorno.
Sì, perché c’è stato un periodo in cui noi rossoneri andavamo allo stadio e non pensavamo con gli stranguglioni alla possibilità di prendere ceffoni da gente tipo Calderoni, Dionisi, Nicolas Lopez o un ottuagenario Maccarone. No. Facevamo rotta su San Siro belli baldanzosi e, prima sulla metrò e poi sulle navette da piazzale Lotto (“Prendiamo questa papà?” “No, non vedi? Arriva quell’altra che è quasi vuota”), chiacchierando fra di noi facevamo finta di preoccuparci per la partita e per gli attaccanti della squadra rivale. In realtà pensavamo solo a quanti palloni gli avremmo rifilato.
PASSAGGIO AL PASSATO PER INSERIRE LO STREAM OF CONSCIOUSNESS DEI RICORDI
Che poi a me c’era altro che interessava anche. Sì, va bene, lo spettacolo sul campo. Ma vuoi mettere la goduria di quello che si vedeva sugli spalti. A quell’epoca ero da poco entrato in un totale trip ultras. Non ricordo bene le ragioni. Forse perché un mio compagno mi raccontava mirabolanti avventure di lui e il padre insieme in Curva Sud. Forse perché avevo negli occhi le immagini dell’esodo di Barcellona per la finale di Coppa dei Campioni. L’enorme macchia rossa inquadrata dalle tv sulle tribune del Camp Nou, tutti con la maglietta di Fossa e Brigate preparata per l’occasione. Forse anche perché a scuola, alle medie, non ero certo fra i più popolari della classe. Diciamo che stavo nella colonna di destra della classifica. E allora visto che i Green Day che mi fecero scoprire il punk erano ancora di là da venire, mi buttai a corpo morto sul tifo, cercando di imparare il più possibile sui gruppi ultras di tutta Italia. E siccome non c’era ancora internet, l’unico mezzo per accumulare il bagaglio giusto di conoscenze, quello per sorprendere i compagni di scuola durante l’intervallo, era “Supertifo”. Ero diventato un avido lettore del giornaletto che ambiva a dare voce a tutta la teppa d’Italìa. Passavo le ore a guardare (e ritagliare) le foto di sciarpate, fumogenate, i primi due-aste e a leggere report di trasferte, storie di gemellaggi e resoconti di rivalità. Se accuratamente sollecitato, ancora oggi riesco a ricostruire con una certa precisione la mappa del tifo tricolore anni ’90; fra amicizie, cordiali antipatie e scazzi pesi.
Un occhio al campo e uno alla Sud, quindi. Adesso lo dico. Io di quella partita non mi ricordavo tanto, prima di andare a rivedermi il filmato su YouTube. Rammentavo il risultato finale – 1-0 – e che il Cagliari ci fece i chiodi. Dopotutto l’avevo detto che era una bella squadretta. Ma, per dire, nemmeno mi sovveniva che avesse segnato su rigore Jean Pierre Papin, pallone d’oro comprato dall’esoso Silvio sostanzialmente per fare il rincalzo di lusso. Indimenticabile, invece, quello che vidi accadere in curva, dalla prospettiva privilegiata del primo anello arancio (sì, mio papà lavorava in una ditta di sciuri) mentre mio fratello si rotola sui seggiolini, emozionato per il suo debutto a San Siro ma ancora incapace di reggere la tensione dei 90 minuti.
RITORNO AL PRESENTE STORICO PER FARVI SENTIRE UN PO’ LI’, INSIEME A ME, A TREPIDARE PER IL MILAN E A SBALORDIRE PER LA SUD
Non so come me ne accorgo. Ma chi va allo stadio sa benissimo che quando sta per succedere qualcosa, in campo ma soprattutto fuori, si sente come un rombo e nell’aria si diffonde una specie di elettricità. Non è tanto diverso dai momenti immediatamente precedenti un temporale. Per fare un paragone con un altro evento che coinvolge masse eccitate pronte a pagare un biglietto per vedere uno spettacolo, si spera il migliore possibile, è simile a quei 5-6 secondi prima che una band salga sul palcoscenico per il concerto, quando calano le luci e dal mixer sfareggiano che è tutto ok, si vada a incominciare. Insomma, a un certo punto fiuto questo tuono che viene dalla mia sinistra in alto e subito mi giro verso la Sud. Vedo che piano piano in mezzo alla curva si srotola uno striscione. È rosso e blu. Con la scritta bianca “Furiosi”. Sotto e di fianco la gente balla come impazzita e anche se sono lontani io li vedo che sghignazzano tutti come matti, mentre cantano “I Furiosi non ci sono più I Furiosi non ci sono più”. Me la ghigno anch’io, perché ho capito che quello è lo striscione rubato agli ultras sardi nella trasferta dello scorso campionato di cui avevo letto su Supertifo.
Che poi sti Furiosi un po’ se lo meritano perché 1. cosa lasci a fare lo striscione incustodito allo stadio prima che i tifosi ospiti se ne siano andati 2. erano proprio dei gran simpaticoni che l’anno precedente – alla partita del furto della pezza – ci avevano accolto con lo striscione “Milanista ebreo ti odio” con tanto di croce celtica.
Parte anche il coro “Lo striscione se ne andava sulla nave che salpava” e poi Fossa e Brigate riprendono a sostenere la squadra più forte che il mondo ha visto mai, come recita uno dei miei cori preferiti. Che anche adesso quando lo intonano – troppo poco, ragazzi – a quarant’anni e rotti mi sento un po’ intorcinare le viscere.
RITORNO AL PASSATO E CHIUSURA ELEGIACA (CON UN ALTRO RITORNO AL PRESENTE, MA STAVOLTA NON PIU’ STORICO)
Fu allora che compresi che io le partite le volevo vedere da lassù. Stare in mezzo al casino, cantare e coprirmi gli occhi dai fumogeni. E un paio di stagioni me le sono anche fatte, poi capii che la vita dell’ultrà a tempo pieno non faceva per me. Ci volevano una dedizione e una prontezza a buttarsi in situazioni borderline che non sono mai state nelle mie corde. Ogni tanto ci torno ancora, però, anche adesso che ho l’abbonamento al piano di sotto, magari in occasione dei derby in casa dei cuginastri o di partite di coppa particolarmente importanti, perché una volta che sali i gradoni della Sud e guardi quel quadratone che ti si para davanti che un po’ è azzurro del cielo, un po’ è verde del campo, un po’ è rossonero degli striscioni, ti senti il cuore che ti finisce in gola e aspetti solo di iniziare a cantare “Perché il Milan è forte, olè”.
POSTILLA
Qualche settimana fa, proprio alla presentazione del libro di ComunqueMilan “Giorni da Milan”, ho incontrato l’Ultimo imperatore, aka Roberto Bertoglio, storico capo della Fossa dei Leoni. Al di là del fatto che mi ha impressionato che, nonostante avesse ben donde di salire su un piedistallo e dare a tutti lezioni di milanismo, se n’è rimasto buono buono ad ascoltare presentazione del libro e interventi di tutti, alla fine dell’incontro ho preso coraggio – perché sì, per me era come per un fan di quelli infottati al pensiero di parlare al cantante preferito: ti viene sempre un po’ la tremarella – e sono andato a dirgli che il mio giorno da Milan era quel giorno di Milan-Cagliari 1-0 quando in Sud estrassero lo striscione dei Furiosi. Lui mi ha guardato negli occhi con i suoi occhi azzurrissimi e ieratici, poi mi ha stretto la mano, una mano che davvero si capisce che “po’ esse fero e po’ esse piuma”, scoprendo il braccio con il tatuaggio del Leone. Abbiamo preso a parlare di Milan-Steaua e di suo figlio che scoprì di avere il biglietto per la partita solo all’ultimo minuto. Al che io ho provato a immaginare come fosse essere il figlio dell’Ultimo imperatore, ma questa è decisamente un’altra storia.
(Enrico Camanzi)
Grande articolo. Grandi ricordi. Grazie.