TRANSMISSION FROM THE SATELLITE HEART – Episodio 1: Milan-Bologna 2-0

Oh, dove eravamo rimasti. Da lui, lui. Fortissimamente lui.

Che diciamocelo. Dopo quella coda di fine stagione in cui siamo diventati praticamente il Milan più forte dai tempi dell’anno di Stam e Kakà, un po’ tutti eravamo preoccupati che fosse, appunto, solo un flame, un fuoco estivo destinato a durare poco, come quei flirt balneari che ad Agosto sei tutto un amore e poi a Settembre già chittisincula. E invece no. Dura. Almeno per quello che abbiamo visto lunedì sera.

Ma soprattutto, quel che sembra, dico sembra, è che sia cambiato l’approccio, la mentalità. Non so se vi ricordate quando ogni santa domenica era sempre una specie di viaggio nella casa degli specchi al Luna Park delle Varesine, che finiva sempre che ti facevano brutto gli zarri che calavano da Maciachini o Lambrate, autentici posti esotici per un giovane virgulto di San Siro come me.

Insomma, fino ad un anno fa poteva andare bene, poteva andare così così, poteva andare malissimo. Ma non solo con le big eh, con cui davi per scontata la possibile figuraccia. No, pure con le medio-piccole, che non si sa mai. Tipo che l’anno scorso con il Bressia la prima in casa era stato un parto e sorvoliamo sulla prima ad Udine con il surreale centrocampo Paquetà-Calha-Borini. Ecco, invece lunedì sera mi è parso che la testa fosse quella della squadra che sa di essere più forte, che con calma inizia a fare gioco (a parte i primi discutibili minuti iniziali), a costruire azioni, finché, inevitabile, arriva la pera. E chi l’ha messa? Ovvio, Lui, grazie ad un cross al bacio di Theone, va ricordato.

Ma Zlatan non si può clonare come la pecora Dolly? Come un replicante di Blade Runner? Perché è ingiusto che in un giorno -comunque lontanissimo, vi prego- costui debba smettere di giocare a calcio, di regalarci la sua presenza già leggendaria, come un Mito che già irradia il culto di sé. Esagero? Che poi Ibra l’ho amato non solo per i gol, ma per il modo scientifico e programmato con cui ha dato il via al pestaggio collettivo di quel bulletto del Bologna che si era permesso di fare il brillante. Pem pem. Botte da tutti ed è finito pure espulso, lo scemo pagliaccio. Bravi ragazzi, così si fa. Don’t try to fuck with the wrong guys. Insomma, tutto bene, tutto bello. Il debutto a San Siro di Sandrino, Benna molto più in forma rispetto al giovedì irlandese, persino Calabria mi è sembrato assolutamente in palla, che tante gliene ho dette dietro, mi sento pure un po’ in colpa (ma non tantissimo).

Però. Però c’è un però. La prima in casa era sempre la Prima in Casa.

La aspettavi praticamente da fine Maggio, da Giugno. Contavi i giorni. Tornavi al Baretto e vedevi tutta quella gente sorridente, anche se erano gli anni bui con Constant sulla fascia e Kalinic come punta. Macchisenefrega, siamo ancora qua, ti dicevi. Le birre fresche in mano, la coda per gli scontrini da Andreone. Qualche vecchia faccia che ha salutato e non si vede più, molto più spesso qualche reduce di mille guerre che si è deciso a tornare. Gente vecchia di Fossa, di Brigate che ti dici ‘oh ma hai visto chi c’è?’. Più tatuaggi, più rughe, più cicatrici, più kili. Soprattutto, sempre i soliti. Non ci siamo mai pentiti, non ci siamo mai arresi, da qua ci dovete spostare con le cannonate. E invece. Ci hanno spostato eccome. Prima lo stop. Poi la fine del campionato. Poi è arrivata l’estate, anzi c’eravamo di già veramente. Ognuno ha fatto le sue cose (per dire c’è pure chi ha scritto un libro, si chiama ‘I peggiori anni della nostra vita’ e parla di tutti noi, casomai aveste bisogno di consigli per la lettura della buona notte). Alla fine, siamo ripartiti come avevamo finito, con Ibra che apre le braccia dopo un gol, ma anche ognuno davanti ad una televisione, a casa sua o in un pub, invece che essere al Tempio, dove dovremmo stare di diritto.

E così lunedì sera io Colo Christian e Mirko eravamo lì a bere birrette ed esultare nella mia umile dimora, a meno di un kilometro da Piazza Axum. Una distanza che abbiamo coperto migliaia di volte.

Con la pioggia, il sole, di notte, di giorno, a volte persino di mattina per quegli anticipi del cazzo delle 12. Invece questa volta no. Fermi.

Così vicini eppure così lontani.

A captare segnali da un satellite che si chiama Cuore.

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