(di Federico Dask)
Il giornale diceva “Milano si sveglia in un clima autunnale”. Essendo il giornale intelligente delle firme intelligenti (non a caso ogni anno si prendevano un miliardo l’anno di finanziamenti pubblici pur essendo di proprietà dei più ricchi del reame) gli ho dato fiducia senza indugi. Senza nemmeno guardare fuori dalla finestra mi sono concesso una porzione abbondante di risotto giallo e un “Ma quasi quasi tiro su anche una giacchetta che farà freschino”. Ho maledetto il giornale intelligente lungo tutti i cinque chilometri di pellegrinaggio sotto una canicola che ricordava il tema centrale di un noto pezzo dei Toto. Al punto che in zona Bonola un tombino eruttava copiosamente come un gigantesco geyser – a posteriori un’evidente premonizione onirica – neanche fossimo ad Harlem negli anni ‘70 coi bambini a danzarci attorno in mutande.
Ma che bel derby amici in rosso e nero. Talmente bello che – forse per osmosi – a tratti son sembrati notevoli persino loro, i brutti per antonomasia, tra “Il bacio” di Hayez come coreo e decibel altissimi in settore ospiti. Un pomeriggio talmente godurioso che ci metto dentro anche quel “quarto d’ora granata” versione Bauscia nel secondo tempo in cui mancava solo la tibia di McKinley e Zoff di testa su calcio d’angolo per fare l’en plein degli infarti nel momento in cui ci si attendeva (ragionevolmente) soltanto un’onesta mezz’ora di Ola e brindisi cordiali. Un derby inequivocabilmente dominato dai milanisti tutti che – in campo e fuori – hanno proposto un’esibizione che mi verrebbe quasi da definire vintage per qualità, calore, sinergia fra il campo e gli spalti. Roba che se non ci fosse stato un terzo anello in più avremmo pensato di essere nei popolari, con Hateley che la incornava sopra il signor Caterina (che di corna in effetti ne sapeva qualcosa) nel tripudio Casciavit dei dicotomici anni ‘80.
E invece no, siamo in diretta nel 2022. E non solo abbiamo vinto il secondo derby di fila, ma stavolta lo abbiamo abbondantemente meritato. Lo so che fa strano, sarà che stiamo ancora cercando di abituarci a questa veste di squadra nuovamente forte – un po’ come quando ti entra di nuovo un vestito che mettevi quando tutto era più semplice e le cose ti venivano naturali come se non avessi fatto altro per tutta la vita. Prima del derby si azzardavano addirittura predizioni clamorose come non accadeva da Ere geologiche, c’era fin tanto una certa baldanza pensando a chi stavolta avrebbe esibito una toppa in più in centro al petto. Però non potevamo mica ignorare che loro fossero parecchio motivati eh. Per gli interisti era come incontrare quello che gli aveva fregato la donna da sotto il naso, sapevamo di avergli fatto tanto male a Maggio. E al gol di Brozovic tutti abbiamo temuto che la vendetta fosse dietro l’angolo.
Eppure, paradossalmente, quel singolo momento ha segnato l’Ouverture del loro crollo verticale. Vedere tutta la loro difesa alla totale mercè di un esaltante Rafa Leao (quando ha voglia è tipo la Santissima Trinità tutta in uno) mi ha fatto venire in mente quando la mamma ci diceva da piccoli che le api avessero più paura di noi di quanto noi ne avessimo di loro – ma noi non le credevamo mai fino a che non ce ne si rendeva conto da soli. Questo derby ci ha messo davanti all’evidenza che ora siamo noi quelli in cima alla catena alimentare e non più viceversa come gli ultimi, nefasti anni ci avevano ormai abituato a credere.
Sono stati 90 minuti spettacolari nei quali il Milan e la sua gente sono volati in cielo in carne ed ossa sopra a San Siro come la donna cannone di De Gregori, come un tombino che erutta di piacere nella torrida estate meneghina. In un Giubileo a tinte rosso e nere che comincia a diventare una normalità quasi spiazzante. Ma più che ben accetta.