(di Max Bondino)
Mi avete lasciato un po’ solo. Ma d’altronde, che importa. Leggo, ascolto ma in fondo, chi se ne frega, mi ripetono tutti. Partite superflue, risultati inutili. Quindi perché mi ritrovo ancora una volta (la quarantanovesima, in stagione) con il laptop sulle ginocchia, le cuffie in testa e un microfono che disegna eleganti ombre sul muro? Se non ha più importanza il soggetto della questione, figuriamoci le parole che dovrebbero raccontarlo. La musica, poi. L’esoscheletro di questo podcast.
Ma chi se ne fotte, dai. A questo proposito, pervaso dal menefreghismo militante attorno a Torino–Milan, credevo di attingere facilmente all’hip hop, dove si inciampa letteralmente fra un “don’t give a fuck” e un “don’t give a shit”, invece mi è venuto in mente Sir Paul Mc Cartney, ma mica quello barbuto, coi suoi tre amici, sul tetto della Apple Corps. No, l’ottuagenario.
Quel signore anziano a cui, incredibilmente, ancora gli frega di ciò che ama.
“Who cares what the idiots say
Who cares what the idiots do
Who cares about the pain in your heart?
Who cares about you?
I do”
Perché a me, importa. Non del parere degli idioti ma sicuramente di quel dolore che non nasce da una semplice sconfitta ma da quella sorta di vilipendio che germoglia nell’espressione: “tanto non conta”. L’AC Milan non si ritrova meritatamente sotto di due goal alla fine del primo tempo solo per menefreghismo ma soprattutto per una serie di mancanze ormai strutturali a cui questa squadra ci ha abituato lungo tutta la stagione. Le azioni “cut & paste” con cui il Toro manda in goal di testa prima Zapata al 18esimo ed Ilic al minuto 40 evidenziano una difesa che definire schierata in modo amatoriale, risulterebbe offensivo verso i campetti delle sacrestie. Certo, se ad una situazione già di palese difficoltà tecnica, si aggiunge l’Europeo alle porte e la percezione diffusa che vincere o perdere siano sinonimi, in questa fase, ecco che l’aspetto più interessante della partita del Milan è stato veder Okafor sfoggiare la parrucca di Leao.
“Did you ever get lost in the heart of a crowd
And the people around keep on pushing you down”
Sentirsi smarriti, è il minimo. E fa un po’ male vedere molte facce rilassate fra i giocatori che si scaldano nell’intervallo e ancora di più nel tunnel, al rientro in campo.
Già, ma non conta niente, chi se ne frega. Ventisei secondi, un pallone sonnecchia al limite della nostra area, Ricardo Rodriguez (a.k.a. l’uomo che mandava in panchina Theo Hernandez) trova il goal di una carriera intera con una conclusione irreale all’incrocio. Palo interno e 3-0. In tre quarti d’ora.
Ininfluente, già. Ma il bruciore lo sentite anche voi, spero.
A questo punto, sembrano avvertirlo anche i nostri. Le espressioni si fanno più tese e i soliti noti (leggi Pulisic) tengono piccole lezioni di professionismo. Al minuto 48, è proprio Christian a colpire una traversa clamorosa con un gran tiro dal limite per poi guadagnarsi un rigore poco dopo che Bennacer trasforma. Il risultato non cambia più, la partita un po’ lo fa. Perché confezionata l’ennesima brutta figura, il Milan crea diverse occasioni per riprenderla addirittura, dai contropiede sprecati da Musah alle giocate di Rafa entrato nel quarto d’ora finale ma sarà mica normale, doverle rimontare praticamente tutte.
“Who cares about you?
I do
You’ve been left in the rain”
Resta l’immagine di un Milan lasciato un po’ troppo solo in questo finale di stagione. Dalla proprietà, dai suoi tifosi silenti allo stadio (ma loquaci sui social) e anche da molti dei suoi protagonisti, temo.
Fra le frasi trend del momento ci sono sicuramente: “Dai, che ne manca solo una” e “Dai che è finita”.
Sinceramente, io non vedo l’ora che ricominci.