(di Max Bondino)
Un silenzio che grida, un’eco che non ha suono, un’impronta invisibile lasciata nell’aria, un urlo che non può essere articolato con le parole. Un gesto che esiste tra il desiderio di comunicare e l’impossibilità di farlo, come un urlo incapace di raggiungere l’esterno, ma che tormenta dentro, dove ogni emozione è sospesa tra ciò che si può dire e quel che resta imbrigliato fra silenzi carichi di significati, come un sogno sfumato che lascia spazio all’impossibile: la bellezza che emerge dal caos, la perfezione che si rivela per un istante. La verità celata dietro la frustrazione, un’apparente incoerenza che, nel suo essere incompleta, diventa totale.
Perché son capaci tutti a rompere il silenzio urlando. Quell’istante di pura estetica, al minuto 75 di Milan – Verona ha invece fatto il percorso inverso, un vortice silenzioso, un vuoto che ha inghiottito ogni parola di protesta, ogni mugugno, ogni sfogo. In quell’istante, un gesto è riuscito a sospendere il tempo, a fermare la furia dell’attesa e della delusione. Un’azione talmente perfetta, talmente improvvisa, che ha imposto un rispetto totale, quasi reverenziale. Un istante di sospensione, dove le emozioni rabbiose si sono fermate per guardare, per ascoltare, per accogliere la bellezza che si materializzava.
“I never knew this could happen to me
I know now fragility
I know there’s people who I haven’t told
I know of people who are getting old”
Ma quanta faticosa fragilità, tutt’attorno. Compresa la mia, nell’accettare l’ennesima maglia servita con un background di significati nobilissimi ma che mi fa comprendere sempre di più come si doveva sentire mia madre negli anni ’90 quando, seduta davanti alla TV, una voce fuori campo annunciava: “Nella puntata di oggi, il ruolo di Ridge Forrester sarà interpretato da un cameraman calvo”. L’uso di maglie improprie dovrebbe aiutare a calarsi un po’ meno nella parte, a soffrire meno ma alla fine non è così. L’AC Milan resta fedele alla linea di pensiero abbracciata in stagione: il negazionismo dei primi tempi. Passa praticamente mezz’ora dallo svarione di Thiaw al primo minuto che porta il Verona a calciare in porta (con Mike non sicurissimo ad alzare sulla traversa) al nostro primo tiro.
Ovviamente, grazie alla solita grande iniziativa personale di Reijnders che si libera di un paio di avversari prima di calciare un bel rasoterra dal limite che Montipò mette in angolo. Va in goal il Bebote al 32esimo, grazie ad una notevole imbucata verticale proprio di Thiaw, il taglio dentro la difesa fa brillare gli occhi, l’intelligenza con cui capisce come il tocco in scivolata sia l’unico modo per superare difensore e portiere, ancora di più ma la partenza è in fuorigioco. Ancora Santiago protagonista allo scadere, riceve in area un pallone scomodo, lo doma e serve a Musah un rigore in movimento. Dopo un tempo intero trascorso a cercare ogni singola scelta sbagliata possibile, al buon Yunus pareva brutto rovinare la media: non alto, di più.
“Wish I could speak in just one sweep
What you are and what you mean to me
Instead I mumble randomly
You stand by and enlighten me”
La sensazione è che ciò che separa le reali potenzialità di questa squadra da ciò che decide di metter in campo galleggi nel territorio dell’incomunicabilità. Non c’è mai una reale presa di coscienza della propria forza ma che qualcosa finisca con l’accendersi se esiste un conflitto, una rivalsa, una rivincita da prendersi. Nella ripresa, Conceicao, azzecca le sostituzioni. Esce un misterioso Sottil insieme a Kyle Walker (da preservare) per Rafa ed Alex Jimenez. Ma si tira poco, si tira male. Se lo fa Musah, siamo rassegnati da tempo ma quando lo fa Leao, somatizziamo terribilmente. Una menzione d’onore per Joao Felix, invece, l’uomo che fa ammonire la gente. La facilità di movimento, la leggerezza di tocco che gli permette di sparire di fronte a chiunque, in ogni momento, ha fatto apparire una quantità di cartellini a favore a cui non eravamo abituati. È un altro gigantesco plus da tenere in considerazione.
“…Silent Shout”
Minuto 75. Anzi, pochi secondi prima. È davvero curioso come una delle più belle azioni di questa stagione (e non solo) nasca da un momento di vero conflitto. Rafa sbaglia uno stop banale in ricezione, poi un altro controllo, lo stadio rumoreggia, infastidito. È esattamente in quell’istante che Leao chiama ancora una volta palla con veemenza per zittirci tutti. La riceve da Jimenez, sulla trequarti, scatta verso l’area portandosi dietro il peso dell’inquietudine degli spalti, spezzando il ritmo e il respiro dello stadio: Il silenzio. Scarica ancora su Alex al limite per poi lanciarsi dentro. La palla di ritorno, con lo scavetto è un’arte segreta, la geometria dei sogni. Il gesto acrobatico con cui Rafa la mette sulla testa di Santiago è una mossa che abita più spesso in un Dojo che in un campo da calcio. Il Bebote deve solo spingere il suo primo pallone sotto la Sud, a San Siro. L’urlo.
Il “Silent shout” non è più solo un grido interiore, ma la frustrazione che sboccia in meraviglia. Capace di inghiottire la delusione, di spegnere le proteste e di farci ricordare, per un istante, che la perfezione è possibile.
All’ultimo secondo di recupero, quando Rafa spreca malamente il raddoppio in area piccola, ci ricordiamo che la bellezza a volte non basta. Fra pochi giorni, in Champions, da quel Dojo non si dovrà portare in campo solo l’estetica ma anche la disciplina di chi sa quando sferrare il colpo.