(di Max Bondino)
Viaggi, sfide, redenzione. Parlarsi chiaro è sempre utile ma sul lungo termine porta spesso inevitabile dolore. Gli stati emotivi attraversati dall’AC Milan e chi lo ama vanno ben oltre quelli basilari raccontati dai cartoon della Pixar. Qui non abitano rabbia e gioia ma in una manciata di giornate abbiamo abbracciato l’invidia litigandoci la colpa, delusione e speranza, provato risentimento e rincorso la gratitudine, cercato stupore e trovato indifferenza, respirato frustrazione fino a quando un pallone all’incrocio, nel derby, ha gonfiato una rete e milioni di petti, riscoprendo, all’unisono, l’orgoglio.
“Plain talking
Take us so far
Broken down cars
Like strung out old stars”
Proprio quando sembravamo la macchina più scassata della corsa mentre l’ultima stella esausta pareva spegnersi, usciamo a rivederle in un ragguardevole venerdì sera. Parliamoci chiaro, AC Milan, siamo tutti qui per dare un senso a quell’orgoglio ritrovato e trasformarlo in sogni. Siamo settantamila a San Siro ma quando mancano dieci minuti all’inizio di Milan – Lecce, lo stadio è mezzo vuoto. E’ davvero stranissimo e credo fermamente, che tutto il circo cringe all’americana a corredo della partita stia ottenendo l’effetto opposto. È davvero il festival dell’imbarazzo conto terzi, qualcuno glielo spieghi. Quando tutti hanno preso posto e le squadre sono schierate col pallone al centro, regna ancora, a volumi da Tomorrowland, una cassa dritta col basso in levare no-stop che pure Gigi Dag si leverebbe il cappello suggerendo: “anche meno, dai”.
“Plain talking
Making us bold
So strung out and cold
I’m feeling so old”
Schiettezza, abbiamo detto. Comunicazione diretta, sincera, senza ambiguità. Allora, lo dico. Non è esattamente la partita che speravamo di vedere, nella prima mezz’ora. Non giochiamo nemmeno male ma giochiamo poco. Una sorta di “surplace” attendista che non si sposa bene con la lussuria da derby che ancora ci circola nelle vene. Il Lecce palleggia educato e vediamo battere una serie infinita di calci d’angolo ad Ante Rebic, va come passa il tempo, sembra ieri che vincevamo gli scudetti assieme.
Così, un po’ annoiato inizio a guardarmi in giro. Da quest’anno, San Siro ha dei nuovi schermi sospesi all’altezza delle torri, un po’ più piccoli di quelli dove campeggia il risultato, utili per promuovere qualche partnership e servire momenti coreografici. Al minuto 37, quando Rafa viene abbattuto a ridosso dell’area, nemmeno fosse una comunicazione di servizio, i display si riempiono di fiamme e la scritta “Benvenuti all’Inferno” comincia a bruciare. Stanno per iniziare cinque minuti in casa del Demonio.
“Plain talking
Served us so well
Traveled through hell
And oh, how we fell”
Parliamoci chiaro. Cadere all’Inferno è un problema per gli altri. Non te lo poni, quando è casa tua. La punizione la batte Theo, il suo sinistro è il rasoio sulla testa di Morata. Violento, crudo, efficace come il suo nuovo taglio. La palla è sotto la traversa e qui brucia tutto. La TV cattura la tenerezza dell’esultanza di Alvaro coi figli ma probabilmente si perde il rientro a centrocampo dopo quella coi compagni. È fuori di sé. Nel senso che il suo corpo sembra incapace di contenerlo, come se un altro sé stesso, volesse uscire. La nascita del Morata milanista. Passano due minuti, Leao riceve sulla trequarti, non ha bisogno neppure di alzare la testa, gli basta ascoltare quel rumore sordo che fa San Siro quando Theo Hernandez si butta dentro l’area. Lo trova con un rasoterra più intelligente di molte persone che conosco. Theo, nell’area piccola, opta invece per un sinistro di ignoranza barbara e spacca la ventinovesima porta da quando gioca negli inferi. Passa un altro minuto. L’essere demoniaco nato dal calciatore precedentemente conosciuto come Alvaro Morata morsica via un pallone in possesso del Lecce a centrocampo. Si lancia verso l’area, serve perfettamente Abraham che con un rasoterra colpisce in pieno il palo. La palla torna in gioco proprio per Tammy che ci riprova ma Falcone respinge corto, Christian Pulisic, di rapina ne mette un altro, gli occhi della tigre sull’avambraccio destro guardano, sempre più affamati, la Serie A.
Cinque minuti. Tre a zero. Ma i goal sono il meno. C’è un intero mondo, lì dentro. La forza, il fuoco, la fierezza, il furore che possono portare ovunque questa squadra che sembra essersi ricordata il suo nome. Una menzione per Fonseca che, per la prima volta, da anni, ci ha regalato ciò che chiedevamo: Il turnover, nella ripresa, grazie. A risultato acquisito, non all’inizio per poi chiamare tutti a raddrizzarla in finali di partita disperati. Così, il secondo tempo è dedicato alle standing ovation. La prima è per uno stremato Morata, che abbiamo visto fare il bomber e il mediano con una generosità e passione tali che gli applausi mica bastano. Roba da strapparsi il cuore dal petto e tirarglielo. Esce Theo per lo sfortunato Bartesaghi che si ritrova ingiustamente espulso dopo pochi secondi ed anche Abraham che avrebbe ampiamente meritato il goal. Al quarto ci andiamo vicini in più occasioni con Rafa ma forse, avrebbe rovinato il plot narrativo di quei cinque infernali minuti.
“Lift me up, lift me up
Higher now, Ama
Push me up, lift me up
Higher now, Ama”
In un venerdì sera di settembre, l’AC Milan non solo si rialza in piedi, fiero ma inizia a guardare in alto.