(di Max Bondino)
Lo smarrimento non è solo il perdere la strada in senso fisico. È perdere certezze, abitudini, appartenenze. È quel momento in cui ci si guarda intorno e il mondo sembra lo stesso di sempre, ma qualcosa non combacia. C’è una sottile angoscia nel rendersi conto che non ci si specchia più in ciò che prima ci definiva. E il silenzio che ne consegue pesa più del caos.
“Carry what I keep
Hold it back between my teeth”
Portiamo a San Siro, a denti stretti, tutto ciò che abbiamo. Si è parlato molto dello sciopero del tifo organizzato ma il vero silenzio non andava cercato lì, è solo il riflesso di un’assenza più grande. È il resto del pubblico ad esser stremato ancora prima del calcio d’inizio, al punto che persino l’incolpevole speaker dello stadio viene, per la prima volta, lasciato solo in quella liturgia di botte e risposte che si era soliti condividere. “Imbruttito”, tieni duro, non è colpa tua. Già, le colpe. Talmente abbondanti, gestionali, tecniche, umane e nonostante tutto, lo sdegno più grande lo abbiamo guardando verso il campo chiedendoci: “Ma il Milan, qual è?”
“Or am I blind
If I can’t see the color that I need?”
Ma davvero, con tutti i problemi che abbiamo, dentro e fuori dal campo, dobbiamo soffermarci sulle ennesime maglie ripugnanti? Io credo di sì, perché è il momento di ricordarci perché stiamo così male, per quale motivo, da tutta la vita, avete deciso di esser felici o incazzati conto terzi. Lo scrivo come dovessi spiegarlo a quella manciata di delinquenti eleganti che hanno subaffittato la nostra squadra, levandoci tutto. La volete un’idea di marketing della madonna? Ve la regalo. Un comunicato stampa che annuncia la nostra squadra come l’unica che tornerà ad indossare solo due maglie con i propri colori sociali, prendete pure spunto, da qui in avanti.
L’AC Milan è una “storia vivente”. Ogni momento è parte di una narrazione collettiva che non si ferma mai, che si trasmette e si modifica attraverso il passaggio del testimone tra le generazioni. Un tifoso di oggi non è mai solo un individuo, ma parte di una catena di storie, emozioni, sacrifici e gioie che si intrecciano con quelle di chi c’era prima, e di chi verrà dopo. I colori della maglia non sono tinte su un tessuto, sono un legame emotivo, una connessione con il passato, sono la risata di mio padre. È l’eredità. Molti di noi tifano una squadra perché ce l’ha insegnato qualcuno che amiamo. Perché i primi ricordi di calcio non sono le partite, ma voci, abbracci e lacrime condivise, senza capire granché. Perché quando guardiamo quella maglia, non vediamo giocatori in campo, ma momenti della nostra vita intrecciati a quei colori.
La “storia vivente” è fatta di radici e di sogni. È un continuo equilibrio tra ciò che è stato e ciò che ancora deve venire. Un bambino che se ne innamora sente di entrare in una trama che lo precede e che lo aspetta. Un romanzo condiviso dove l’ultimo capitolo non si scrive mai.
“The day becomes the week
You hold the light in your eye
Connect it back to me”
Me la sono presa comoda, lo so. Ma forse ora rende meglio quel senso di smarrimento di cui parlavo all’inizio mentre guardiamo l’ennesima partita del Milan dove, il Milan, non c’è da nessuna parte. Non è dentro quelle maglie che neppure Freddy Krueger avrebbe mai indossato ma neppure nei primi 45 minuti. Ne passano due per vedere Dia in solitudine davanti a Mike che devia in corner con un mezzo miracolo, ne servono altri quattro per ammirare Nuno Tavares bucare con facilità fanciullesca la nostra fascia destra e seminare il panico nell’area piccola. Altri cinque per un gran tiro da fuori di Isaksen e un minuto dopo, un appoggio terrificante di Rafa favorisce il contropiede di Dia in campo aperto sul quale, Musah recupera in scivolata, facendo l’unica cosa presentabile della sua sconcertante partita, durata 36 minuti. Prima volta in cui un giocatore viene letteralmente sostituito da uno stadio intero, prima che dal suo allenatore. Dopo poco più di dieci minuti il Milan poteva stare sotto di quattro goal anziché di uno, perché Zaccagni, alla mezz’ora porta avanti la Lazio con un tap-in dopo la respinta di Maignan sul tiro di Marusic. Rischia la doppietta allo scadere scheggiando il palo esterno con un rasoterra.
La ripresa inizia ancora con la Lazio a sprecare il raddoppio con un tiro centrale di Guendozi. Proviamo a reagire ma per un tiro alto di Joao Felix al minuto 51, ecco subito dopo un altro tiro a giro di Zaccagni che sembra allenarsi coi cinesini a Formello per la semplicità con cui gli riesce ogni cosa. Da parte nostra consueto repertorio di tiri sballati dalla distanza figli della disperazione. Come l’anno scorso, il Milan si prende la vetta della classifica delle espulsioni. Al minuto 67 Pavlovic entra in ritardo su Isaksen, l’intervento è scoordinato, fuori tempo, molto ruvido ma non da ultimo uomo. Non voglio neppure che mi venga spiegata la nuova regola coniata per l’occasione, se esiste. Assistiamo con la nostra miglior poker face.
È il momento di quel finale che vi racconto sempre, avete presente? Quando entrano tutti gli attaccanti e giochiamo senza centrocampo. Escono Fofana e Pulisic per Thiaw e Chukwueze ma soprattutto un cambio che urlerò nel cuore della notte, svegliandomi di botto, per settimane: “JOVIC PER GABBIA! JOVIC PER GABBIA!”
Esattamente quando inizia ad insinuarsi quel pensiero malvagio che smuove la gente ad abbandonare gli spalti con qualche minuto d’anticipo, Chuckwueze rimette tutti seduti a cinque dalla fine correggendo di testa, sotto la traversa, un cross di Rafa dalla sinistra. Ma ormai è chiaro che una forza superiore ha deciso che questa versione improponibile del Milan non ha ragion d’essere e si inventa un finale con un rigore contro al 97esimo. Così, ad occhio, sembra si stessero inventando qualcosa anche in sala VAR mentre vedono Isaksen andare a sbatter contro Mike in uscita bassa (con la palla praticamente già a fondo campo). Quando Pedro segna, allo smarrimento, si affianca la consapevolezza del vuoto.
“Now I shed what I don’t need
Watch it float away from me”
Alla fine ti rendi conto che il distacco non è una scelta ma una frattura che ti attraversa senza preavviso e a volte, ciò che fa più paura non è il cambiamento, ma vedere un pezzo di noi svanire. Ed è proprio per questo che appartenere a quella “storia vivente” diventa, oggi, ancora più essenziale, vitale. È l’unica cosa a rimanere davvero nostra, l’ultima cosa che non ci toglierete mai.