(di Max Bondino)
Ci sono fini che si annunciano con fragore, con urla di disperazione o con il boato di un crollo improvviso. E poi ci sono quelle che scivolano via senza rumore, che si consumano lentamente fino a spegnersi, lasciando dietro di sé solo il vuoto. È il tipo di fine che non arriva di colpo, ma si insinua, si fa strada piano, quasi senza farsi notare, fino a quando è troppo tardi per fermarla. Questa è la fine che non fa rumore, ma pesa più di qualsiasi clamore. La fine che non esplode, ma si dissolve, lasciandosi dietro il contorno sfocato di ciò che avrebbe potuto essere.
“Here it ends
No one’s gonna shed a tear
No need to shout
Just to stand the silence”
Ma è una fine talmente ingombrante nella somma di tutte le sue mancanze che ci obbliga a partire proprio da lì, dai titoli di coda sulla nostra bizzarra partecipazione alla nuova Champions League, iniziata con una sensazione di inadeguatezza, per poi convincerci, attraverso cinque vittorie consecutive di meritarcelo eccome, un posto nell’elite, sino a testimoniare uno dei peggiori harakiri sportivi (nell’arco di tre partite) di cui abbiamo memoria. Non ci sono neppure i fischi a San Siro, uno stadio sinceramente stremato e attonito che osserva le mini-risse finali in campo con la coda dell’occhio, allungando il passo verso casa, come quando si attraversano quartieri non proprio tranquilli con la vaga sensazione di aver smarrito qualcosa per strada, ma senza più la forza di tornare a cercarla.
Eppure ci avevamo creduto. Tutti. Come non farlo quando una squadra con l’atavica difficoltà al tiro come la nostra, si ritrova in vantaggio dopo 40 secondi. Quando Gimenez insacca l’appoggio di Thiaw nell’area piccola, ammetto di aver pensato come questo ragazzo possa davvero esser un predestinato ma il destino non è un monologo, è un intreccio di volontà, occasioni e coincidenze che si compie solo attraverso gli altri. Già, tutti gli altri che non lo serviranno più adeguatamente ma che comunque ci regalano uno dei migliori primi tempi stagionali, col popolo di San Siro ad alzare i decibel a dismisura ignaro che l’orrore, stanotte, è andato a nascondersi nella ripresa.
Ci provano Reijnders e Joao Felix da fuori nel primo quarto d’ora e poi ancora il portoghese, attorno al ventesimo con Theo Hernandez che si avventa sulla respinta del portiere colpendo il palo esterno. Quello che conforta di più è la sensazione di totale controllo di fronte ad una resa apparente degli olandesi che “non-giocano” come se, dopo il goal di Santiago, puntassero a supplementari e rigori con due ore di anticipo. Allo scadere, prima vediamo Rafa concludere due volte sul portiere nell’area piccola e poi l’anticamera dell’inferno. La trattenuta di Theo su Moussa è alquanto stupida ma la nevrosi delle proteste all’ammonizione è demenziale. E pensare che in quel momento ci stavamo incazzando per la squalifica in vista degli ottavi. Che bella l’ingenuità. Il futuro, intanto, si stava già sgretolando.
“Well spent time
In the early morning’s haze
You sit and wait
Watching full glasses through blank eyes”
Passiamo così, dalla gioia di esserci al disincanto e visto che il destino ha uno spiccatissimo sense of humour, Theo ci lascia in 10 proprio quando ci sembrava di averlo ritrovato. Nei primi 5 minuti della ripresa, due combinazioni in velocità con Leao che ci ricordano anni migliori, la prima con una gran palla rasoterra messa in mezzo di cui nessuno approfitta, poi al 51esimo la percussione in area, la sensazione netta che potesse concludere al tiro ma il passeggero oscuro che lo accompagna da tempo gli consiglia la simulazione, secondo giallo ed espulsione. E’ l’apice di una stagione “Balotelliana”, di un uomo che sembra continuare a giocar a calcio perché la paga è buona ma non è che questo sport (o noi, chissà) gli piaccia più granchè.
Fino a questo momento, le statistiche che apparivano nei maxischermi di San Siro mostravano dodici tiri a zero per noi. Così, per dare la dimensione dell’autolesionismo.
“Vacuous winter stare
Worn out version of yourself
To tough to fall
But not strong enough to turn”
Accade tutto molto in fretta. Solo nella testa di noi innamorati balena l’idea di una battaglia eroica da vincere nonostante tutto, contro un avversario incredibilmente modesto che ritrova un po’ di coraggio. L’AC Milan precipita in uno stallo emotivo incomprensibile, il resto arriva dalla panchina quando Conceicao prima viene costretto ad inserire Bartesaghi per Pulisic, poi addirittura Fofana per Gimenez mandando messaggi inquietanti a tutti i presenti. Ora forse, ci vogliamo arrivare noi, ai supplementari. Non lo faremo. Perché dopo venti minuti di sofferenza autoindotta, su un traversone di Bueno, il Feyenoord pareggia di testa con Carranza.
Con la stessa banale prevedibilità della Top 10 dei più visti di Netflix, cerchiamo l’assalto solo dopo il goal subito. Una situazione che ci permette di abbracciare forte Strahinja Pavlovic in versione Gareth Bale per gran parte del finale. Lo guardiamo col magone e vediamo un altro di quegli ottimi giocatori passati di qui che rischiano di non lasciar un segno nonostante le loro grandi qualità. Ce ne sono davvero tanti in questo Milan, un raduno di talenti che, purtroppo, non è più nemmeno lontanamente una “squadra”, da tempo. Un gruppo che ancora una volta, è sembrato più impegnato a sconfigger sé stesso che gli avversari.
“This is not
What you wanted
Not
What you had in mind”
Non era esattamente il finale che avevamo in mente. Il contrasto fra aspettative idealistiche e la realtà del presente, destabilizza. Come risucchiati in un loop senza fine, in una paralisi emotiva, bloccati in un limbo, sospesi tra il passato e il futuro, tra la fine di qualcosa e l’incapacità di cominciare, davvero, qualcosa di nuovo.