(di Max Bondino)
C’è un istante, tra il sonno e la veglia, in cui tutto si sfalda. I contorni si confondono, il tempo rallenta, il mondo sembra in attesa di una decisione che non arriva. Un luogo sospeso dove ogni movimento è esitante, ogni passo potrebbe essere quello giusto o quello fatale. C’è chi lo chiama sogno, chi lo chiama incubo. Ma forse è solo il momento prima della scelta, l’ultimo respiro prima di cedere all’inerzia o provare a risalire.
Qualcosa giace lì, sotto la superficie. Un cuore che batte piano, un’ombra che si dibatte, una creatura smarrita chiamata Milan impegnata a scegliere fra l’oblio o l’istinto, la propria natura più selvaggia.
“To all the words that I won’t get to say
The things that time steals and turns to pain
If it’s not love to let you leave again
I don’t know what is”
Nella stagione, forse, più “inespressa” di sempre, attraverso tutto il tempo sprecato a rimbalzare fra le delusioni, l’atto d’amore supremo di presentarsi all’appuntamento sapendo già che farà male, restare immobili mentre l’AC Milan si perde ancora, lasciarlo andare incontro ai suoi errori senza poterlo fermare. Guardarlo svanire in un altro primo tempo buttato via, accettare il suo smarrimento senza smettere di crederci. Se questo non è amore, allora cosa lo è?
Aver vissuto abbastanza per vedere un Milan – Como in cui, quelli coi soldi, sono gli altri dovrebbe esser già sufficiente ma constatare come siano sempre quegli altri a giocar bene a pallone è il vero macigno sull’anima. Nonostante il match inizi esattamente come a Lecce, con un’azione favolosa condotta da Theo impegnato a scambiare in velocità prima con Rafa, poi con Santiago spaccando letteralmente in due la loro difesa per poi mettere Musah solo davanti al portiere in quello che è qualcosa di più del canonico “rigore in movimento”. “L’americano sbagliato” tentenna, anziché tirare decide per una finta, salta il portiere e svirgola in maniera insensata, fuori. Mai come oggi, auguriamo davvero a Yunus una vita piena di soddisfazioni e una carriera gratificante, lontanissimo da Milano.
“But if you doubt and question what the future holds
Remember there’s no place you can’t call home”
Anche davanti alla bellezza, tocca rifugiarsi in sé stessi cercando conforto perché ciò che riserva l’immediato futuro non è un bello spettacolo. Il Como ci palleggia in faccia con una disinvoltura sconfortante, costringendo Bondo a collezionare la prima ammonizione da stress, già al decimo. In questo scenario, vedere Musah sempre posizionato come nostro primo terminale offensivo e Santi Gimenez fare il mediano a dar spallate in mezzo al campo ci fa dubitare di questa e tutte le realtà alternative possibili. Da qualche parte, nel multiverso a diramazione infinita di Everett, potrà avere un senso logico. Ma purtroppo, non qui.
Dando un senso all’avvilente (per noi) statistica sul possesso palla, il Como va in vantaggio alla mezz’ora con un’azione alla quale manca solo il rumore del gessetto sulla lavagna. I lariani ci disegnano sulla faccia, tutta di prima, una trama al limite dell’area che porta Da Cunha a piazzarla di piatto nell’angolino basso. Non c’è reazione, se non quella istintiva di Mike Maignan al minuto 44, quando respinge da due passi il tentativo di Kempf lasciato libero di stoppare e tirare in mezzo a quattro dei nostri.
“The dreams that stillness entertains and slays”
È nell’immobilismo che affogano i sogni. E la ripresa sembra iniziare coi piedi ben piantati in una palude di fango. Conceicao lascia negli spogliatoi Theo, sprofondato ancora una volta dentro sé stesso dopo il lampo iniziale e Bondo su cui aleggiava la fragranza di secondo giallo ad ogni intervento. Cercare di finire in undici è già un successo, ultimamente. Musah (semper lù) ci infonde immediatamente sicurezza facendosi stupidamente ammonire con una trattenuta appena tornati in campo. Al minuto 49, il raddoppio. Squadra altissima, Da Cunha viene lanciato ancora in contropiede sulla destra, entra in area e con un gran tocco di sinistro batte Mike. Quando vediamo apparire il logo del VAR sugli schermi siamo tutti convinti stiano controllando le violenze subite da Alex Jimenez dalle quali è ripartita l’azione, scopriamo invece esistere uno di quegli offside molecolari che, per una volta, regala a noi, un po’ di vita.
L’AC Milan è ancora quella creatura smarrita, appare così fragile che se chiudesse gli occhi, potrebbe dissolversi per sempre. Se solo li aprisse, però, potrebbe ritrovare il cielo. Ma il confine tra i due è sottile, impalpabile come nebbia. Nel silenzio ovattato di questa incertezza, il tempo fa il suo gioco, impassibile. Fino a quando, all’improvviso, qualcosa lo squarcia. Un lampo, una scintilla. Un primo, incerto passo verso il risveglio.
“You will never leave a trace where you walk
If the only path you take’s the one you’re told”
Christian Pulisic non segue le regole. Quando tutto sembra perduto, lui cambia le leggi del gioco, trova spazio dove non ce n’è, vede linee invisibili per gli altri. Il pareggio, al minuto 53, è un atto di ribellione pura. La palla dentro di Reijnders rientra nella costante, naturale bellezza del suo repertorio. Sul vertice dell’area piccola, Christian neppure guarda la palla, la ascolta rimbalzare, il suo piede sinistro sa dove andare a cercarla, quando s’incontrano abbiamo già tutti un pugno levato verso il cielo.
Dieci minuti dopo uno straordinario lancio di Joao Felix per Gimenez avrebbe potuto regalare molto ad entrambi ma l’occasione sfuma. Toccherà aspettare ancora per queste redenzioni, anche perché Santiago lascia poco dopo il posto ad Abraham, l’uomo che sognava di essere Rui Costa. Dopo un anno di conoscenza stretta, resta il giocatore più inspiegabile, capace di sbagliare l’impossibile sottoporta così come d’inventarsi come il più sofisticato rifinitore della rosa. Dopo qualche sponda di assestamento, al 76esimo riceve da Pulisic, spalle alla porta, la protegge e lascia uscire dai suoi piedi un assist abbagliante, come un fulmine scagliato da una nuvola dell’olimpo. La palla giunge a Reijnders, che con la serenità dei fuoriclasse cerca la soluzione meno ovvia. La stoccata, tra palo e portiere, diventa un’autentica firma sulla pagina sgualcita del destino che ama farci soffrire.
E lo faremo ancora, quando a cinque dalla fine vediamo uscire di pochissimo la conclusione di Tijjani grazie ad un’altra superba sponda di Abraham, soffriremo in 10 contro 11, soffrirà Dele Alli espulso poco dopo il suo ingresso, lo farà il suo amico Walker e tutti noi durante l’assedio dei sei minuti di recupero che diventano quasi nove, interrotti solo nell’istante in cui stavamo andando noi, a segnare il terzo. Così, per ricordarci la stima di cui godiamo nel cuore della FIGC.
“So walk away, I’ll find you
To the wilder
To the wilder you”
Il Milan vince ma continua a muoversi come una creatura oscura, smarrita, che non sa se arrendersi o lanciarsi verso l’ignoto. Ogni passo avanti è una domanda, ogni azione un’ombra che lotta per definire se stessa. La sua natura selvaggia è viva, irrequieta, ma priva di direzione. Eppure, in questa ricerca, è proprio la sua indomita voglia di cercarsi che lo rende tanto inquietante quanto irresistibile.