Starmen. Di uomini, e una stella. Egidio Calloni

Passando da Verbania in un pomeriggio di sole di fine aprile, mi è venuto in mente un altro pomeriggio di sole di fine aprile con dentro uno che a Verbania ci vive, l’Egidio Calloni, e una partita passata per i fatidici 40 anni pochi giorni fa.
Flashback secco, Milan-Verona, 22 aprile 1979. Popolari alla destra della curva sud, bandierina del corner proprio sotto e papà che mi solleva un poco per farmi vedere bene Rivera quando viene a battere i calci d’angolo.
Rivera. Il dio Rivera che rientrava proprio quel giorno. E che appena il Milan ha cominciato ad attaccare da quella parte, nel secondo tempo, segnò di piatto destro. Palo interno, lato corto della rete e un boato che è un altro flashback – auricolare, però.
Ma prima di tutto ciò, sempre nell’area lì sotto, segnò anche l’Egidio.

Che non giocava più nel Milan, era stato mollato l’estate prima proprio all’odiato Hellas, e con esso era già capitombolato in Serie B con larghissimo anticipo. Cross da sinistra del comunista Arcadio Spinozzi e rasoiata di sinistro di Calloni, in netto anticipo su Collovati. Impietrito Ricky Albertosi. Nel silenzio più totale di 50 e passamila invasati che fino al momento prima urlavano, ricordo come fosse oggi la reazione strana dell’Egidio. Un urlo palesemente di rabbia, i pugni battuti sulle cosce, la testa scrollata in una specie di no. Interpretato dai più come un singulto forte di dispiacere, una roba del tipo “Ma santoddio, dopo tutti i gol che non ho fatto qui, ne devo fare uno proprio oggi, che a noi non frega più un cazzo e loro si stanno giocando tutto?”. Perché effettivamente, la contabilità spicciola lato rossonero era così compicciata: quattro partite alla fine del campionato; due punti di vantaggio sulla seconda in classifica; una Stella che puoi solo buttare ancora una volta alle ortiche; dopo undici anni di attesa infinita.
Undici erano anche Egidio e i suoi compagnucci, deboli e retrocessi finché si vuole, ma indossanti quelle fottute maglie blu con colletto giallo portatrici di disgrazia da quel 20 maggio 1973, la tragedia mai cicatrizzata del 5-3. Anche lì, guarda un po’, c’era in ballo una Stella. Se dalla Curva Sud, oltre agli striscioni di Brigate e Fossa, quel giorno pencolava anche il tazebao “Addio Bastardi” un motivo c’era, e valido, se persino lo Sciagurato, con quella maglia, stava scrivendo il remake dell’incubo. Sissignori, quel Calloni lì. L’Egidio. Lo Sciagurato Egidio, come lo battezzò cinicamente il GranGiùan Brera contribuendo in modo decisivo alla sua demolizione morale.

Mandato via praticamente gratis, in comproprietà al Verona dopo che alla porta del Milan, a sorpresa, aveva bussato la Juventus campione d’Italia: il Trap aveva perso Boninsegna e voleva un’alternativa all’ancora acerbo Virdis, si ricordò di uno “dal sinistro notevole” e che con lui sulla panca rossonera, di gol ne aveva fatti tanti (era andato in doppia cifra nei due primi campionati al Milan). Si mise in mezzo Rivera, che con la sua erre moscia rispose che il Milan non si privava dell’Egidio.
Sì, ciao. Detto e fatto, e non è che venne sostituito da qualche big dell’epoca, un Savoldi, un Pruzzo. A Milanello arrivò Chiodi, manco in campo quel pomeriggio del 22 aprile causa sopraggiunta disperazione di Liedholm e dei milanisti.

Sul pontile di Verbania, nella brezza del Lago Maggiore, tanti anni dopo, Calloni ci rosicava ancora, esattamente come al momento del gol sotto la Sud. “Ma quale dispiacere, ero contento, stavo esultando, con rabbia. La rabbia di vedere che il Milan vinceva lo scudetto, e lo faceva con uno che davvero non la metteva dentro mai: a lui la Stella e a me il Verona, la Serie B, i fischi, quel soprannome del cazzo. Io lo Sciagurato, e lui campione d’Italia”. A tanti, nelle case e in passeggiata domenicale con radiolina, cadde la mascella quando sentirono Everardo Dalla Noce, durante quella scarica elettrica del giro iniziale dei campi di Tutto il Calcio minuto per minuto Via con i punteggi dei primi tempi”, scandiva Roberto Bortoluzzi) pronunciare Milan 0, Verona 1. Lo stesso risultato, 0-1, che fu annunciato pochissimi secondi dopo da Catanzaro, dove si trovava il Perugia. Il Perugia, buon Gesù.
Non l’Inter, la Lazio, il Napoli, la maledetta Juventus. Il Perugia, gente che fino a 4 anni prima aveva visto la Serie A solo a 90.o minuto, e che ora era lì, a candidarsi ai miracoli e alle eterne maledizioni milaniste, una squadra che sarebbe vissuta giusto il tempo di bestemmiare noi.
Un intervallo lunghissimo, talmente lungo che ci fu anche il tempo di bussare alla porta dello spogliatoio maledetto. Sei anni prima, a Verona, era successo il contrario: primo tempo 3-1, e qualcuno si era recato gentilmente nel greve salone rossonero a offrire i suoi servigi, vi facciamo pareggiare e non se ne parla più. Rivera si oppose, mandò via i mercanti gialloblu dal tempio.
Peccato solo che picchiarono dentro altre due pere e con loro se ne andò lo scudetto. Adesso non se lo poteva più permettere, il capitano, il tempo suo e del Milan era scaduto, l’ennesimo fallimento inaccettabile, specie per tutta quella gente che se ne stava attonita sulle gradinate. Così, no. E allora, stavolta, parliamone. Un testimone diretto non mi raccontò di un’eventuale contropartita e della composizione della delegazione milanista. Ma della comprensione e della benevolenza del presidente Saverio Garonzi, lo stesso del 5-3, che probabilmente aveva a sua volta qualcosa da farsi perdonare: una volta può bastare. Fatto sta che alla prima azione della ripresa, la carrozza dell’Adige si trasformò in zucca: i “Bastardi” si ritrassero davanti a una resistibile discesa di Bigon guardandosi bene dal marcare Rivera, desolatamente solo all’altezza del dischetto del rigore. E a 7 minuti dalla fine, Buriani sgusciò via in mezzo a due veronesi (uno era il testimone di cui sopra) e crossò in area: Novellino, alto un metro e un barattolo, dovette fare un misero saltello per incornare, solissimo, il gol dello scudetto.

Se chiudo gli occhi rivedo i miliardi di bandiere tornate bandiere e un signore, davanti a me, che non esultava in piedi, ma si sfregava forte le mani, nel classico gesto della soddisfazione. Lo aveva fatto anche un po’ prima, quando Enrico Ameri aveva gracchiato il pareggio del Catanzaro. Tre punti per tre giornate, e il maledetto e comprensivo Verona è dietro le spalle. Benedetto, invece, Egidio Calloni, quel suo gol, quella sua reazione fatta di un orgoglio intriso di rancore, quella recriminazione di non essere passato – davvero per poco – nel posto giusto al momento giusto. Uscì dal campo fianco a fianco con Aldone Maldera, non se lo filava più nessuno, nella gioia generale. E invece, un pezzettinino di Stella l’aveva cucita lui, l’Egidio, era anche sua. E sappia lì dove sta, a Verbania, che qualcosa, sempre, rimane, tra le pagine rosse e le pagine nere, e fanculo alle etichette, agli stereotipi. E “Ai giornalisti che venivano a San Siro col pezzo già scritto”.

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