Sabato 29 ottobre 2005 la Juventus di Capello (quella che si ricorda “solo per due scudetti revocati“, come ha detto recentemente un noto allenatore di simpatie non esattamente interiste) sembrava davvero la squadra più forte del mondo. Aveva un tecnico di primissimo livello, e nel suo undici titolare c’erano ben otto giocatori che di lì a pochi mesi si sarebbero giocati un Mondiale. Aveva vinto le prime nove partite di campionato, unica squadra a riuscirci nella storia della serie A, segnando 18 gol e subendone solo due. Aveva però anche una dirigenza marcia, unica responsabile della prima ignominiosa retrocessione in B della storia bianconera, ma tuttavia – per un buffo giro di vite del pensiero – è proprio quella dirigenza a essere ancora oggi idolatrata da un’ampia frangia di aficionados juventini. Il calcio è l’arte dei pazzi, specialmente in Italia.
Quello fu l’ultimo Milan-Juve prima della tempesta. Una tempesta doppia, perché di cicloni ne erano in arrivo due. Uno più piccolo, tutto interno al nostro mondo, ma non per questo meno doloroso, anzi: fu la penultima partita a San Siro nella storia della Fossa dei Leoni, la sera dell’inizio della fine. In Fossa erano state ritrovate due bandiere dei Viking, ma non in seguito a uno scontro, e comunque sventolate in faccia agli juventini per 90 minuti. Quattro giorni dopo, di ritorno dalla trasferta europea di Eindhoven, un ragazzo venne fermato in auto da persone non meglio precisate, che tirarono fuori i coltelli e gli intimarono di consegnargli uno striscione. Fu sufficiente fare due più due: erano ultras juventini che rivolevano indietro le bandiere. Seguirono trattative tra le parti, di cui è complicatissimo raccontare ogni dettaglio, che si conclusero con un appuntamento con i Viking in cui striscione e bandiere tornarono ai legittimi proprietari. Tutto normale, ma fu il pretesto aspettato dagli altri gruppi per staccare la spina alla Fossa e prendere il controllo della curva, con l’accusa di “infamia” a causa della supposta e mai provata richiesta d’aiuto alla Digos per recuperare lo striscione. Piuttosto che farsi dilaniare, i capi della Fossa decisero da soli di staccare la spina, in un’ultima drammatica riunione al Circolo Fornaroli di viale Bligny, davanti a un’enorme riproduzione in bianco e nero della Libertà che guida il popolo di Delacroix: era il 15 novembre 2005, e fu la fine di una storia lunga 37 anni.
Al secondo ciclone, come si fa con tutti i cicloni, i meteorologi diedero un nome di Vecchia Signora. Probabilmente, per usare un luogo comune dei più abusati all’epoca, “quella Juve non aveva bisogno” dei favori della classe arbitrale. Fatto sta che li ebbe eccome, come già documentato in passato, e non a caso per quest’ennesimo Milan-Juve l’arbitro designato fu il fedelissimo Bertini, di cui avevamo già parlato qualche mese fa. Per darvi un’idea del clima di fine impero, la partita di ritorno sarebbe stata arbitrata invece dal sempre eccellente De Santis. In quei mesi Milan e Juve peraltro erano pappa e ciccia: erano i tempi in cui Berlusconi, ignaro (o forse no) del ciclone alle porte, premeva per un ingresso di Moggi in società o addirittura in Forza Italia. Durante il Trofeo Berlusconi, Buffon si era fatto male alla spalla uscendo su Kakà (che lo saltò netto, ma fu ovviamente accusato di essere un assassino soprattutto da alcune attendibili testate tuttosportive), e come gesto di distensione Galliani gli aveva amorevolmente ceduto in prestito l’inutilizzato Abbiati. Proprio Abbiati fu l’assente illustre della serata, ufficialmente per tonsillite, problemi a un ginocchio, problemi personali (…le cavallette!), anche se non è difficile vedervi la messa in pratica di un gentlemen’s (si fa per dire) agreement stipulato ad agosto.
Partita senza storia, che fu risolta nello spazio di mezz’ora. Il Milan affrontò il match con un furore agonistico rarissimo per l’era Ancelotti, ben riassunto dopo pochi minuti nell’azione (che trovate al minuto 0:58 del video qui sotto) in cui Gattuso svelse la palla dai piedi di Vieira e tentò subito la via dei pali, incurante del fischio dello zelante Bertini per gioco scorretto. Poco male: al 14′ Seedorf, che più volte in passato aveva purgato la Juve con varie maglie (persino alla Sampdoria), usò il gambone di Thuram come trampolino per la palla che si impennò e ricadde a piombo alle spalle del goffo Zucchina Chimenti, terzo portiere titolare per una sera. Dall’altra parte, calma piatta: Trezeguet vagava nell’area piccola alla ricerca di rifornimenti che non arrivano anche perché, come sempre, Ibrahimovic viveva la solita serata da fantasma al cospetto dei mostri sacri Maldini e Nesta. Al 26′, una Juve distratta non spazzava su punizione di Pirlo e consentiva a Kakà di segnare da 10 metri il suo unico gol in carriera ai gobbi. Ancor più grottesco lo spettacolo in scena al 44′, quando Pirlo coglieva da 30 metri Chimenti col plaid sulle ginocchia, uccellandolo con una mefistofelica punizione (non ancora “maledettaahhh”).
3-0, come a Istanbul sei mesi prima. Ma era solo una decima di campionato, perciò la ripresa filò liscia come l’olio, con Del Piero scongelato dalla panchina solo a venti minuti dalla fine, e ci immaginiamo Capello che gli impartisce di entrare tenendosi una molletta sul naso. Arrivò solo un gol bello e inutile di Trezeguet, a rimpolpare la statistica negativa di Fabio Massimo nei Milan-Juve (otto giocati, solo due vinti). Come detto, non c’era astio tra Milan e Juve, forse perché tutti conoscevano, chi più chi meno, i dietro le quinte inconfessabili. Sapevano ma non temevano, perché i cialtroni che abbiamo avuto al potere negli ultimi vent’anni, ad ogni livello, avevano tutti lo stesso grande difetto: mancavano tragicamente di lungimiranza e si lasciano travolgere dagli eventi, opponendo la resistenza di una piantina di mughin… di mughetto nel ciclone.
Qualcuno dei nostri è sopravvissuto, anche se pure loro portano ancora addosso le tracce dell’uragano. In omaggio al suo proverbiale senso della posizione, Clarenzio dopo poco più di un mese di carriera è già sulla tolda del comando a pilotare un Milan-Juve certo meno prestigioso di allora, ma pur sempre Milan-Juve, se pensate che ci sono allenatori dalla carriera ultra-decennale che non ci si sono mai avvicinati nemmeno di striscio. Kakà è sempre lì, senza un pelo in faccia come sempre, con i capelli scolpiti e il ciuffo indefinibile, però più lento, più vecchio e insomma, più umano. Pirlo, invece, fu colto nel 2011 da improvvise amnesie, lancinanti emicranie e perdita progressiva della percezione dei colori: in poche settimane, come se fosse finito nel mondo di Pleasantville, finì a vedere cose, animali e persone in bianco e nero, e da allora non è più guarito. Sorte ancora peggiore spettò a quei dirigenti juventini, e di rimando a molti loro tifosi: toccò loro la fine di quel trombone di Don Ferrante nei Promessi Sposi, che “non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle“.
Già, le stelle.
Reti: 14′ Seedorf, 26′ Kakà, 45′ Pirlo, 76′ Trezeguet (J)
MILAN: Dida, Stam, Nesta, P. Maldini, Serginho, Gattuso, Pirlo, Seedorf (86′ Kaladze), Kakà, Inzaghi I (69′ Vieri), Gilardino (79′ Cafu) – All.: Ancelotti
JUVENTUS: Chimenti, Zambrotta, Thuram, Cannavaro, Pessotto (42′ Chiellini), Camoranesi (58′ Mutu), Emerson, Vieira, Nedved (71′ Del Piero), Trezeguet, Ibrahimovic – All.: Capello
Arbitro: Bertini