Milanello si riconosce dal numero di strane persone davanti al cancello. Un po’ di famiglie, i papà che hanno portato i bambini a vedere i giocatori che arrivano coi macchinoni. Poi ci sono gli obnubilati, che vengono più volte, hanno immancabilmente la maglia rossonera e il cappellino, vengono anche solo per dire al giocatore che guida con lo sguardo in avanti “Balo, Balo, vai Balo, segna, eh, BALO” – e fare la foto alla macchina. E poi decine di reporter da giornali, tv, siti internet, tutti con l’aria di chi ha fatto il callo a questa sporca guerra. Ma tutti lì, fuori.
Dentro, Milanello è un posto che fa un po’ a pugni con quello che è il Milan oggi. Basta guardarlo. Ha l’aria di un posto perfetto per gente come Franco Baresi, Tassotti, Ancelotti, Van Basten. Sicuramente Massaro. Ha quell’eleganza signorile un po’ anni 80. Sembra un resort, non un posto da bad boyz con la cresta. Milanello non è nata con Berlusconi, ma forse rappresentava quell’ideale del Berlusconi 50enne prima di sbracare, quell’estetica tipo Milano 2.
Dentro, la gente è impeccabile ma non particolarmente brillante, proprio come in un albergo a quattro stelle. La palazzina principale contiene le camere dei giocatori, le sale per le conferenze stampa, la sala ristorante, con un pianoforte, un caminetto. Accanto al caminetto, una foto di ABATE. Poi ci sono le palazzine con la palestra, e il famoso Milan Lab. E un sacco di campi da calcio, e alberi, e un fiume sul lato sinistro. E la piazzola per l’atterraggio dell’elicottero. Non si sa mai, che un giorno venga lui. Sul viale alberato a destra, all’ombra, c’è la statua di Nereo Rocco che guarda verso il campo di allenamento centrale – ma non so se riuscireste a vederla, a quanto pare ogni tanto la spostano. O forse è Rocco che non vuol vedere certe cose e se ne va.
Ci sono anche otto ettari che non sono realmente utilizzati. Sono stati presi solo per garantire che non ci siano dei vicini molesti. Per garantire la quiete.
Milanello si trova a Carnago, provincia di Varese. Non proprio attaccato a Milano. E’ un paesino abbastanza anonimo, e che si piace così. Non c’è molto. Vicinissimo al centro sportivo rossonero c’è il birrificio artigianale di Carnago. Ma poco altro, quindi se Ronaldinho fosse scappato dal ritiro per venire qui, lo avrebbero visto tutti. Milanello è stato inaugurato nel 1963, presidenza Rizzoli. E’ con Milanello che il Milan ha iniziato a vincere nel mondo. A un certo punto è diventato anche la sede dei ritiri estivi della squadra, praticamente unico caso in serie A, visto che le altre vanno a prendere soldi dalle proloco dei paesi di villeggiatura. Però a un certo punto era un po’ decaduto. Nel periodo buio della serie B ci facevano i matrimoni, per fare cassa. Ma mi spiegano che è l’unica vera proprietà della società Milan.
Avvicino il barman per avere uno di quegli aneddoti che girano a Milano da quando sono ragazzino, e che iniziano con “Mi ha detto un mio amico, che conosce il barman di Milanello, che Gullit…”
Mi sa che era un altro barman. Ho visto pesci più loquaci.
Però trovo un giovane elegantissimo che lavora nel settore marketing del Milan. Milanista. “E qui non lo siamo proprio tutti”, mi confida. E’ preparatissimo anche sui diversi prati, quello con le resistenze elettriche sotto, quello con l’erba mista, metà finta metà vera, per riprodurre l’effetto-stadio. Sì, okay, ma fuori gli aneddoti. Il suo argomento preferito è Ibra. Ibra che sistema Allegri come fosse un poster contro il muro dello spogliatoio. Ibra che prende Papastathopoulos il giorno dopo che ha debuttato nel Milan, lo punta, e gli dice: “Papa. Tu no Genoa, qui. Tu, Milan”. Il greco scrolla le spalle un po’ sprezzante, fa per andarsene – Ibra gli si para davanti con gli occhi sbarrati e gli dice con tono lapidario: “PAPA”. E da quel momento, Papastathopoulos cerca non solo di allenarsi lontano, ma anche di non farsi mettere più in campo per paura di incrociarlo. Perché Ibra, pare, era gentile il 90% delle volte, ma c’era quel 10% in cui si capiva che aveva la spia rossa accesa, e allora anche gente grande e grossa si teneva lontana, perché si capiva che si rischiava grosso. Tranne uno. Onyewu. Che non ne voleva sapere di inchinarsi a re Ibra, e a un certo punto un giorno è scoppiata la famosa rissa. Dicono che sembrava di vedere due cani da combattimento che si vogliono ammazzare, avvinghiati a terra, in un mulinare di botte e calci così pauroso che per cinque minuti nessuno, compresi i più macho, ha il coraggio di dividerli, per paura di rimetterci il naso. Però, Ibra, mai veramente spiacevole, a differenza – mi dice – di Boateng, spocchioso fin dal primo gol in campionato.
Il mito tra i miti?, gli chiedo. Maldini, che anche se non ne aveva voglia si allenava sempre fino a tardi, perché, diceva, “il rispetto non ti viene dato perché ti mettono una fascia sul braccio”. Ma anche Ancelotti che dopo che gli hanno sparecchiato la tavola, si siede di fianco a qualche giocatore dicendo “Ti devo parlare”, invece lo fa per mangiare un’altra volta. E ovviamente Gattuso, il perenne bersaglio degli scherzi dei compagni – il migliore, a quanto pare, di Kaladze, che per un mese ogni giorno fa il conto alla rovescia, sempre a tavola, alzandosi e dicendo “Volevo ricordare a tutti che tra 29 giorni è il compleanno di Rino”. “Volevo ricordare a tutti che tra 22 giorni è il compleanno di Rino”. “Volevo ricordare a tutti che tra 8 giorni è il compleanno di Rino”. “Volevo ricordare a tutti che dopodomani è il compleanno di Rino”. Finché. Il giorno del compleanno. Kakhaber si alza. Chiede attenzione. Tutti pendono dalle sue labbra.
“Volevo ricordare a tutti che tra 365 giorni è il compleanno di Rino”.
Sembra che lo abbia inseguito con la forchetta in pugno.
Milanello è questa roba qui,
un luogo idilliaco un po’ irreale, con tanti, forse troppi ricordi di un’età dell’oro, con quel nome che sembra suggerire modestia, serenità di spirito. Un ritiro a Milanello per il Milan degli anni 90 non sarebbe stato vissuto come una punizione. Per gente che era cresciuta in certi posti tristi come Travagliato o Fusignano, starci era un regalo. Oggi Mexes entra e parcheggia nello spazio a lui riservato, contraddistinto dal suo numero di maglia, sbuffando come un impiegato che va al lavoro ma sta pensando all’aperitivo in corso Como.
Forse Milanello un giorno si estinguerà, sarà una di quelle cose che segnano un’epoca, ma non sono più funzionali a quella successiva. Se dovesse essere venduto, dice lo statuto, non sarà più utilizzato da altre squadre di calcio. Comunque ora come ora, Milanello serve. Ma la sua atmosfera, lo si capisce, non è quella di un posto felice. Forse già i ragazzi della Primavera che si allenano con Inzaghi hanno smesso di pensare a Milanello come a un posto figo. Un po’ come nessuno crede più che Berlusconi o nessun altro possa trasformare l’Italia in un posto figo.
Ma detto questo, c’è sempre gente che NON pensa sempre al Milan, che NON ne è ossessionata, che NON vive col complesso di inferiorità, e che NON è nemmeno nata da una costola del Milan e NON si è ripromessa nel proprio atto di fondazione di combatterlo, che NON tenta di copiare la prima squadra di Milano anche in questo. Come NON credergli?