In tanti negli anni hanno provato a mettere il cappello su Ricardo Izecson Leite dos Santos, per brevità chiamato Kakà. Uno dei più attivi è sempre stato Leonardo, che da subito iniziò a rivendicare i meriti di quel colpo di mercato dell’estate 2003. Generalizzando come spesso amano fare, le gazzette varie hanno sempre incluso Kakà nella cartella “Grandi Affari” portata a spasso da Galliani come una coccarda, o in second’ordine hanno sempre speso una buona parola per Ariedo Braida. E invece no, perché il primo responsabile del più grande affare del Milan dei Duemila ha un nome e cognome inatteso: Gaetano Paolillo.
46 anni, ex modesto calciatore di serie C, Paolillo è un agente FIFA che gestisce nella primavera del 2003 un giro di calciatori non indimenticabile. Il suo fiore all’occhiello è Dino Fava, bomber della Triestina che sfiora la promozione in A seguito a ruota dall’attempato Rubens Pasino che è appena riuscito a piazzare al Napoli più scalcagnato di sempre. Un paio d’anni prima aveva lavorato con il Milan, concludendo il trasferimento della meteora argentina Fabricio Coloccini. Per una qualche strana forma di insoddisfazione, a marzo prende e parte per il Sudamerica, deciso a dare una sterzata alla carriera. Sterzata che effettivamente arriva a Belo Horizonte la sera dell’11 maggio, antivigilia della spasmodica semifinale di ritorno di Champions Milan-Inter.
A quel tempo Kakà non è più uno sconosciuto. Anzi, l’anno prima è stato il più giovane dei 23 brasiliani convocati al Mondiale 2002: ha giocato in tutto 18 minuti contro la Costa Rica, sufficienti per partecipare alla festa dei pentacampeaos. Carnagione bianco latte, lontanissimo dagli stereotipi del numero 10 brasiliano matto e ingestibile, è quel che si dice un bambino perbene, marcato a vista dai benestanti genitori Bosco, ingegnere civile, e Cristina, professoressa che nel tempo libero si diletta nella preparazione di ciambelle strepitose. A lui la sterzata è già capitata oltre due anni prima, un pomeriggio di ottobre del 2000: si trova in un parco acquatico e per un tuffo in una piscina troppo poco profonda quasi ci rimette le penne. Una craniata sul fondale è stata fatale a molti, ma Riccardino se la cava con una vertebra rotta, e la convinzione che lassù qualcuno lo ami. Da quel giorno inizia ad appartenere a Jesus, come da t-shirt d’ordinanza che non mancherà di esibire spesso da lì in avanti.
Kakà è nato principino della garotada, e non intendiamo solo gli amichetti d’infanzia con cui giocava a pallone. Anche ora che ha vent’anni ed è circondato da avversari ben più stagionati, è il faro del San Paolo che quella sera a Belo Horizonte strappa un buon 2-2 contro l’Atletico Mineiro. E’ il grande protagonista: un gol, un assist, una performance da stella filante. In tribuna, Paolillo si trova davanti a un foglio bianco che ha intenzione di inviare ad Adriano Galliani. In quel report non potrebbe essere più chiaro: quel documento si trova facilmente su Internet e oggi tutti possono apprezzarlo. “Giocatore di un altro livello. Può fare la seconda punta oppure partire dietro le due punte. Fisico, tecnica, dribbling e facilità di corsa. Pronto agli inserimenti, cerca e trova con semplicità la via del gol. Rientrava da un infortunio, e quindi non al meglio della condizione fisica, ma che sia bravo non ci sono dubbi. Può diventare un giocatore immagine. E’ un investimento, un giocatore che un grande club deve controllare o prendere. Ragazzo serio e affidabile: le sue squadre non possono che essere Milan e Real Madrid“.
A questo punto Paolillo si comporta esattamente come vi aspettereste che si comportasse: si precipita negli spogliatoi del San Paolo e chiede di incontrare Kakà. Vuole parlargli, fare bella impressione a lui e a suo padre, spiegargli perché il Milan è meglio del Chelsea e del Real Madrid (ordinato, bellino, wasp, del resto è il tipico giocatore che piace a quel fascistone di Florentino Perez). “Dovevo conquistare la fiducia di Ricardo e dei suoi familiari, dimostrare che non ero un venditore di fumo. Per due settimane sono rimasto in Brasile. Nel frattempo avevo già telefonato al Milan, informandoli della trattativa. Al ritorno in Italia mi sono precipitato da Galliani e Braida e ho detto loro: se volete, Kakà è disposto a venire“.
Come detto, nell’estate 2003 il Milan campione d’Europa in quel ruolo è teoricamente blindatissimo: Rui Costa se l’è cavata più che decorosamente nella sua seconda stagione milanista, mentre a Rivaldo non sembra stare stretto il ruolo di vecchia riserva di lusso. Anche nelle teste dei tifosi più ottimisti, la sorte del misterioso Kakà non può non essere un anno in prestito a Brescia o ad Ancona, in modo da “assaggiare la categoria” e sgrezzarsi a furia di calcioni. In ogni caso Paolillo fa breccia nella scorza dura di Galliani, che si fa convincere a buttare un occhio oltre l’Atlantico. E a metà luglio, finalmente, entra in scena il neo-dirigente Leonardo: il Condor lo spedisce a San Paolo a trattare, anche se Leo, sempre allergico alle gerarchie, vorrebbe subito avere voce in capitolo. “Kakà non serve, abbiamo già due numeri 10“. Si parla apertamente di prestito, appunto: si vocifera addirittura di un anno al PSG, per sostituire Ronaldinho appena passato al Barcellona. A inizio agosto si fa invece strada l’ipotesi Lazio, in cambio di Stam. Intanto Leonardo parla parole flautate al clan Kakà, raffigurandogli uno spogliatoio più brasiliano di una churrascaria: Rivaldo, Cafu, Serginho, Roque Junior, Dida…
Ma ecco che arrivano i nuovi ricchi scemi del calcio mondiale, a seminare zizzania. Roman Abramovich è diventato proprietario del Chelsea a maggio e punta a fare subito la voce grossa, comprando ad esempio Crespo, Mutu e Veron. L’offerta al San Paolo è di 12 milioni, di cui il 15% da versare direttamente nelle tasche del giocatore. I brasiliani la usano per cercare di tirarci il collo, e spillarci fino a 15 milioni. Radiocomandato da Galliani, Leonardo fa finta di abbandonare il tavolo delle trattative, prima di essere richiamato in tutta fretta dagli spaventatissimi paulisti. Che del resto, quali brasiliani hanno mai sfondato in Inghilterra?
Sono passati i tempi delle manfrine olandesi, dei tirammolla lentiniani, dei sensi di colpa nestiani. La Kakà family si muove compatta come un sol uomo in direzione Milan. La firma benedetta arriva all’interno dello stadio Morumbi, dove si radunano attorno a una scrivania Leonardo, il procuratore Wagner Ribeiro e il presidente paulista Marcelo Gouvea. 5 anni di contratto, 1,2 milioni a stagione, con l’aiuto dell’Adidas: al club 9 milioni. Poche ore dopo, il campione d’Europa e del mondo Roque Junior viene girato al Leeds per liberare il necessario posto da extracomunitario.
La notizia non meritò che piccoli trafiletti sui quotidiani non sportivi. Ma la chiosa, diventata immortale, la pose nientemeno che Luciano Moggi, il mammasantissima, il Grande Dirigente, che si esibisce in un pensiero di smisurata acutezza, eleganza e profondità: “Io alla Juventus uno che si chiama Kakà non lo prenderei mai“. Tutti i presenti risero.
e da lì inizio il declino di Moggi