Kakà non è tornato. La seconda squadra di Madrid (quest’anno è così) pur di non ridarcelo gli paga uno stipendio da paura per subire le umiliazioni del suo allenatore speciale. Che dire, solo un interista può odiare così tanto un milanista. Così il suo ritorno è rimandato per l’ennesima volta, a quando costerà sempre meno e sarà sempre più – come dire – maturo. In compenso “Pato tra due anni tornerà”, ha promesso il Presidente in una delle 17mila trasmissioni radiotv cui ha preso parte in questi giorni. Prima ancora che la cessione fosse definita, il ritorno a casa era già cosa fatta.
Questo, prima. Ma ora chissà. Ora c’è “il negretto di famiglia” (cit. Paolo Berlusconi, il fratello posato), e bisogna vedere. Magari Barbarina sta già facendo un pensierino anche a lui. Mentre laggiù, Pato fa gol.
Eppure c’è una caratteristica che il decantato e decadente stile Milan potrebbe mantenere anche in questi duri tempi di crisi, di rottamazione, prepensionamento, spazio (precario) ai gggiovani, dove persino Dell’Utri non è più sicuro del posto in poltrona: la passione per i grandi ritorni a casa, le cosiddette “minestre riscaldate” a detta di critici musoni come Costacurta o Boban – che noi gli si vuol bene ma è strano che parlino proprio due che abbiamo tenuto anche quando eran tutt’altro che al dente.
Ecco, questa sorta di eterno ritorno calcistico sembra una caratteristica immutabile dell’era Berlusconi, ripetizione ciclica di un gusto nostalgico per i bei tempi andati.
Come dimenticare il burrascoso avanti-indietro da Genova di Gullit, sponda Samp; le rimpatriate disgraziate di Sacchi e Capello nel biennio horribilis ’96-’98; ma anche i Donadoni, i Marco Simone, gli Ibrahim Ba (prima di un Milan-Napoli del 2008, Ancelotti in conferenza stampa disse: “Lo convoco perchè mi sta simpatico”). Per non parlare del triste comeback di Sheva da Londra. Trattato come uno sconosciuto da Carlo Ancelotti, silurato da Galliani con parole di circostanza a fine stagione. Visto poi in Champions League contro l’Inter o con l’Ucraina agli Europei, tanto finito non era (ma aveva davanti Inzaghi, Pato, l’altrettanto riscaldato Borriello e Ronaldinho. Non precisamente Bojan).
Quanti amori difficili, quanti imbarazzati ricongiungimenti. Okay, forse Boban e Costacurta hanno ragione, questa cosa del riscaldare non funziona, le minestre si freddano, la pasta si scuoce, i sequel non saranno mai all’altezza del primo e i remake sono operazioni commerciali tristi.
Ma è innegabile che aver già fatto parte della famiglia è importante, un fiore all’occhiello, un marchio di garanzia sempre affidabilissimo. Allegri prima di essere ingaggiato fu insignito del grande onore di antica appartenenza perchè aveva preso parte ad una risibile tournée in Nordamerica Australia e Asia (dove si narra che Capello lo giudicò uno “sfaticato”).
All’Inter e alla Juventus sono molto meno sentimentali. O li disprezzano appena cambiano maglia, oppure li cacciano dicendo “Ci mancherai!” (vedi alla voce: Del Piero). Eventualmente i figliol prodighi li riaccolgono molto dopo, per trasformarli in figure manageriali, in panchina o in scrivania. Boniperti, ma anche Deschamps, Pessotto, Bettega. Suarez, ma anche Branca, Oriali, Cordoba, Beppe Baresi. Da noi ci si è provato con Leonardo. Non è finita bene. Comunque Frank Rijkaard o Marco Van Basten presto o poi diverranno allenatori del Milan, poco ma sicuro. Kakà, Seedorf e Gattuso non hanno fatto tempo ad andarsene che immediatamente l’eco di un possibile ritorno era già risuonato nell’ambiente rossonero. A Paolo Maldini furono fatte due proposte, per quanto è dato sapere: una da giocatore e una da “uomo spogliatoio”; sembra però un personaggio poco amato dalla società, per usare un eufemismo. Pippo Inzaghi era già dato sulla panchina di Rocco e Liedholm (anche loro, minestre riscaldate. E per due volte) prima ancora che iniziasse ad allenare – perché così va la Famiglia.
Il Milan ai Milanisti, dice Fester Galliani. Sembra uno slogan propagandistico rubato a un modesto partito secessionista. Oggigiorno a guardare gli undici che scendono in campo di milanisti se ne vedono gran pochi, fra giovani sbarbatelli, prestiti dalla Succursale Genoana e brasiliani affetti da una recente, contagiosa forma mutata di saudade. Il più milanista, quello appena arrivato, è cresciuto nell’Inter.
Ma c’è da star tranquilli. Nonostante le promesse sui limiti di età, sul “nuovo corso” e sui “100 giovani visionati in tutto il mondo” (tutti insieme, contemporaneamente, grazie ai superpoteri di Kal-El Braida), qualche vero milanista, prima o poi, ritornerà all’ovile. E’ solo questione di tempo. Le tradizioni sono dure a morire.
Già pregusto il ritorno di Emanuelson a giugno