Teoria e prassi della Maglia Bianca

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A Madrid, per gli ottavi di Champions: “Noi ci crediamo!”. E’ questo il mantra. Siamo così fiduciosi da portare Poli, nonostante ultimamente abbia subito più attentati alla vita lui di un Asburgo agli inizi del ‘900.

Anni fa eravamo più forti della sfortuna e più forti dell’invidia.
Oggi che la sfiga è l’ultima cosa che dobbiamo temere, perché se davvero ci fosse sorte avversa sarebbe giustizia e non propriamente sfortuna, l’unica nostra forza è dichiarare la fede in The Secret rilassando le chiappe.
Voi non lo trovate strano? Non si tratta neanche di una finale secca, dell’ultima battaglia prima di vincere la guerra, ma di un banalissimo ottavo di finale. Perdonate il continuo amarcord, anni fa, se c’erano riti esoterici per un ottavo di finale, erano personali e non si svolgevano in pubblico, ma in privato. Io personalmente chiamavo un amico gobbo, mi mostravo pessimista e lui ci cascava calcando la mano sulla pochezza del Milan e sulla grandezza dell’avversario. Doveva essere per forza gobbo, l’interista non si sarebbe mai fatto gabbare dalla finta autocommiserazione di rito, la conosceva troppo bene.

Quando la società voleva fare gli scongiuri pubblici per la Champions, annunciava l’utilizzo della seconda maglia di guardaroba. Quella bianca, per intenderci. Più che di scongiuro si trattava di impostare la mentalità partendo dalla divisa, come l’abito per il monaco e il camice sulle spalle del medico. La nostra maglia bianca è icona, indice e simbolo. Qualunque sia la nostra posizione in campionato, qualunque sia la condizione psicofisica dei giocatori, qualunque siano le nostre mancanze tecniche, azzera i conti, rimette i nostri debiti, come il bianco sulla sposa moderna che vergine non è. Ammettiamo umilmente che non siamo perfetti ma rispettiamo l’occasione. Non ci importa che vinca il migliore, speriamo di vincere noi. Quando la squadra la indossa, i tifosi sono più tranquilli e sanno che essa è salvagente, giubbotto antiproiettile, black tie e rito per San Culo. Senza dimenticare la Storia, che in Champions, dopo il Real, siamo noi.

E se il Milan avesse deciso di indossarla anche contro l’Atletico a Madrid? Sarebbe stata una retrocessione morale.
Quella a strisce ricorda Crespo e Maldini che festeggiano i propri gol, Kakà che segna un rigore con la faccia da martire, e poi il resto è meglio scordarselo. La terza maglia oro, che debutta proprio stasera, mi ricorda Abate, il giocatore a cui sta peggio: il re della fascia in tempo di crisi, il cui unico pregio è essere biondo naturale, con la maglia d’oro sembra un formaggino Belpaese mezzo scartato, e già quando gioca non è un bel vedere.

Non avendo la sicurezza di poter disporre gli uomini giusti al posto giusto, senza obiettivi o indicazioni per il futuro (passare ai quarti garantirebbe otto milioni, ma nel calcio che ci fai con otto milioni?) il pensiero positivo e la ceretta brasiliana di Mexes sono le uniche certezze che abbiamo.
Dato che: ‘Ci crediamo’, ha senso indossare pure la sacra maglia di San Culo Vergine? Potrebbe essere una bestemmia. Comprometterebbe il significato. Potrebbe bastare accontentarsi della faccia di Cafù su quella di Seedorf e dei mantra.
Con il rischio di dovermi ricredere, di dover ritrattare, anzi, con la speranza di doverlo fare, penso che inneggiare troppo al culo possa portar male. Il rischio è che ce lo facciano, e allora meglio evitare di avere la maglia bianca, nel caso questo accada. Fatti i debiti scongiuri, ça va sans dire.

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