Il sorriso di Montella (ovvero: allenare con la faccia)

«Così da 5 anni vivo consumando, un’incrollabile fiducia nel futuro,
con un sorriso, vedi, che sto conciliando, al vago senso che ho di averlo preso in culo…»
Ogni volta che si parla del sorriso di Montella in sala stampa, dopo una sconfitta, a me viene in mente Daniele Silvestri e la Y10 bordò. Non so bene se Vincenzino avverta davvero strani bruciori, ma diciamo che ci siamo capiti. Ora, a parte che sto benedetto ragazzo potrebbe anche fingere, ogni tanto, di essere dispiaciuto. Chessò, magari dopo che ne prendi quattro a Roma, oppure dopo che ti sfilano sotto al naso un derby con un rigore al 90°, un certo attentato al buonumore lo si dovrebbe avvertire. Anche di facciata Vincè, eccheccazzo. Magari potresti fare come il Trap, liberare qualche “Strunz!” di qua e di là, che fa tanto allenatore-che-ci-tiene. Oppure come Malesani, e magari improvvisando un monologo in napoletano stretto, che fa tanto uomo di cuore. Perché Vincè, detto proprio tra noi, un “…cazzo ridi?” è scappato anche a me. E mi sono fatto alcune domande.
 
Una su tutte: Montella è uno smidollato senza carattere, incapace di frustare ambiente e addetti ai lavori o più semplicemente è una persona posata, educata, incapace di gradassate et similia?
 
E ancora, altra domanda: ma ‘sti benedetti ragazzi, cioè Bonucci e compagni, nei limiti delle loro capacità e ci mancherebbe, oltre ad una paccata di soldi, hanno proprio bisogno di una faccia perennemente incazzosa per rendere al meglio? Cioè, per capirci: oggi la caratteristica di un allenatore deve essere quella di sapersi ergere a protagonista dentro e fuori dal campo o basta che sia uno che non si limiti a “girala girala girala” e a “abbiamo rischiato pòhonniente”, ma che sappia spiegare calcio?
 
Partiamo da un presupposto: non è detto che un allenatore che si mostri sereno e tranquillo, anche nelle sconfitte, nel post-gara, sia un allenatore con poca grinta e carattere (…Vincè, nella malaugurata ipotesi in cui tu per puro caso stia leggendo: tu esageri però eh?) Restiamo sul pezzo con un esempio a tutti molto caro: Carletto nostro da Reggiolo. Ancelotti è uno che difficilmente vedrete impegnato in sceneggiate davanti alle telecamere (a proposito, cazzarola Vincè, la sceneggiata è pure culturalmente napoletana, lasciati andare ogni tanto su!) Il massimo che possiamo vedere di Carletto, ma deve essere imbufalito proprio, è il sopracciglio alzato e ballante. Eppure non si può certo dire che sia uno morbido con i suoi giocatori. E soprattutto che non sia un vincente. Fatta questa premessa andiamo al punto: per me un buon allenatore deve essere anche un grande motivatore. Questo perché in un calcio in cui agonismo e fisicità hanno sovrastato la tecnica, è importante dare sempre il massimo, altrimenti implode il sistema calcio di una squadra.
Prendete Antonio Conte: credo non abbia mai allenato uno dei cinque giocatori più forti del mondo. Eppure riesce sempre a far dare il massimo ad ogni suo giocatore, persino a Giaccherini. Che infatti quando non gioca per lui finisce col vendere CafféBorghetti in tribuna. O Mourinho, sia pur con meno costanza di Conte: quando avvenne quella cosa là, sette anni fa, c’erano giocatori che per lui si sarebbero buttati nel fuoco. Convinse Eto’o a fare il terzino, per dirne una.
Per contro, i pistoleri non sempre garantiscono squadre infoiate – sì, Sinisa, stiamo parlando di te, ci senti? O stai finalmente leggendo qualche libro importante?
 
Esiste poi anche il rovescio della medaglia: cioè allenatori che pur non essendo personaggi usciti da un film di Tarantino, riescono comunque ad avere risultati. Nel calcio italiano, alfiere di questa categoria è Gasperini: tutto fuorché un sergente di ferro, men che meno personaggio televisivo. Però spiega calcio, le sue squadre hanno sempre giocato bene e raggiunto risultati importanti – tranne in un caso: all’Inter, quando appunto sarebbe servita la controfigura del sergente di Full Metal Jacket e infatti la stagione andò in vacca – con nostra somma tristezza, potete immaginarlo. È chiaro però che allenare i grandi club prevede pressioni che magari in provincia non si hanno.
Prendiamo allora il caso di Sarri: lui non motiva i giocatori, in questo senso non è un maestro. Lui li convince che le sue idee sono giuste, che se lo seguono ciecamente i risultati arrivano. Ecco, nel grande dibattito dei paragoni col passato, questo è il vero punto di contatto fra Sarri e Sacchi: entrambi sono risultati credibili per i propri giocatori, venendo da questi seguiti indefessamente. Ma rimangono sistemi difficilmente replicabili: lo stesso Sacchi, fuori dal Milan, non ottenne gli stessi grandiosi risultati. Vedremo Sarri e nel caso ne riparleremo. Già vedendo i risultati altalenanti ottenuti da Guardiola, altro rappresentante della categoria Sarri-Sacchi, lontano da Barcellona, qualche dubbio in più lo si può avere.
Così, in conclusione, resto dell’idea che nel calcio moderno un fustigatore sia meglio di un tattico. Posto che il fustigatore comunque di calcio ne capisca. E cosa ancora più importante, il fustigatore riesca a creare un rapporto empatico con la tifoseria: Simeone e il Vincente Calderon fanno scuola in questo senso. Soprattutto per non finire come Montella, che magari si porta dietro nei momenti difficili la tipica solarità della sua regione, dove le crisi si affrontano col sorriso – ma che fa incazzare i tifosi perché pensano che nella migliore delle ipotesi il suo sorriso sia quello che ricorda un’altra strofa dell’Y10 bordò di Silvestri: «E l’incrollabile fiducia nel futuro ormai, si è consumata inevitabilmente e quel sorriso è diventato un po’ più duro, anzi somiglia a una paresi permanente».

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