Avere vent’anni

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Alla fine l’offerta Faraonica è arrivata, non troppo distante da quella fantomatica che era giunta in via Turati una mattina d’estate, proveniente dal Daghestan: l’Anzhi (vi ricordate l’Anzhi?) ce ne voleva dare 40, stando a Galliani, e noi no, ostinati, che Stephan non si tocca. In mezzo un buco nero lungo due anni, pieno di infortuni da due settimane che diventavano di tre mesi, belle promesse, acclamati rientri, venti minuti con due scattini sulla fascia e noi tutti a darci pacche sulle spalle. A non capire, a non voler capire che parlare di “rientro” e “ritorno” per un ragazzo di fine 1992 suonava pure un po’ patetico, perché a 22 anni non puoi già essere un reduce, e tu tifoso non puoi affidare le tue speranze a un bel giocatore che però al primo pestone rischia di stare fuori altri tre mesi.

A meno che non si spacchi ancora, non arrivi a 15 presenze e non torni a Milanello tra un anno, non ci sarà un ultimo saluto a San Siro, come accaduto per altri più illustri e meritevoli campioni. Giusto una doppietta al Torino, unici gol a Milano nelle ultime due stagioni, in una serata dal clima piuttosto balneare. E’ banale e fuorviante identificare il momento in cui l’interruttore è andato definitivamente giù nella sciagurata traversa colpita davanti ad Handanovic nel derby di novembre, alla fine di una partita in cui ElSha si era comunque comportato bene, per esempio con il bell’assist scodellato per Menez. No, i gol facili li sbaglia chiunque, da Shevchenko a Istanbul in giù, e un Inzaghi potrebbe scriverci un trattato. Molto più indicativi e sconfortanti i cinque minuti giocati all’Olimpico un mese dopo, contro una Roma con la lingua di fuori, e almeno due possibilità di contropiede da sbranare come se quel pallone fosse l’ultimo rimasto sulla Terra. Invece ElSha era molle, non più Faraone ma giovane gatto di marmo, prigioniero di un personaggio che funzionava solo quando gambe e testa rispondevano insieme agli impulsi. Era come se avesse ceduto definitivamente alle malignità di tanti, come se, a furia di sentirsi dire che era capace solo di fare sempre la stessa finta, se ne fosse auto-convinto.

La manfrina di spostarlo a interno di centrocampo non poteva avere molto senso, essendo del resto ispirata da un presidente più rintronato che mai. L’amara verità è che il Milan – anzi no, Milano era città ormai bruciata per Stephan El Shaarawy. Per mesi e mesi, i soliti ben informati (quanti ce ne sono!) e quella fogna a PC aperto di nome Twitter si sono divertiti ad alludere a quella parola indicibile – cocaina -, scorciatoia retorica di mille problemi ben più complessi che possono attraversare la testa di un ventenne esploso bruscamente con 14 gol in un solo girone e poi di colpo assalito dai dubbi. Per troppo amore abbiamo dato la colpa ai giornali che gli mettevano troppa pressione, poi a Balotelli che gli toglieva l’aria, poi ad Allegri che lo lasciava in panchina, e poi tutta la virulenza delle nostre dotte argomentazioni si è scagliata solo e soltanto su di lui. Dall’altra parte è successo lo stesso anche a Santon, elevato sull’altare del Facchettismo e poi scaraventato giù al grido di “Pippa di meno koglione!!!”. E anche ammesso che sia vero, in questi casi sopravvivono solo dileggio e voglia di umiliazione, la gogna, come se un calciatore ventenne fosse altro da noi, da ammirare nei suoi scattini da animale rinchiuso in un acquario infrangibile, limitandoci casomai a tirargli qualche nocciolina.

In Italia avere vent’anni è difficile, quando non hai gli anticorpi per fare fronte all’invidia cieca di frustrati e incapaci di cui hai avuto la sfortuna di essere idolo fino a pochi momenti prima. E se finisci in una pubblicità (avendo la faccia sosta peraltro di sostituire KAKA’) sei spacciato. Potrete obiettare che non è un brutto vivere, finire a Montecarlo a giocare alla Champions e alla roulette per un milione e mezzo all’anno. Lo si scrisse un’estate fa anche per Balotelli, a cui tuttora non bastano tutti i soldi del mondo per conquistare una parvenza di felicità – e lui ne ha davvero tanti, o almeno speriamo.

Sì, ora che se n’è andato e difficilmente tornerà, guardiamoci in faccia e non nascondiamoci dietro una cresta. Il girone da 14 gol è stato la sua condanna, perché in quel momento l’abbiamo obbligato a vestire i panni del Salvatore della Patria nel Milan più sgangherato del decennio. “Sono un uomo!”, urlava disperato a un certo punto l’Elephant Man, circondato da una folla traboccante di eccitato ribrezzo. Con l’Uomo Porcospino non è poi andata tanto diversamente, perché l’aria di Milano e Milanello è diventata troppo pesante. Chissà se tra dieci anni saremo disposti ad ammetterlo: El Shaarawy? L’abbiamo rovinato noi.

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