Una Stagione all’Inferno, ep.2. Milan-Papisti 2-0.

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18 Settembre 2013
Milan-Papisti 2-0

Occhei, lo ammetto. Ero già pronto a scatenarmi in critiche sagaci e raffinati calembour (il 90% dei quali riguardava Birsa. Tipo: “O la Birsa o la vita”, “La Birsa di trucchi” e così via. Ora: fanno ridere? No). Del resto la partita di ieri sera si prestava perfettamente: se la Gobba di Tardelli e del Trap era definita la J**e Operaia (non riesco a scriverlo, scusate), non riesco a trovare aggettivi congrui per un Milan che è sceso in campo ammassando Zaccardo, Constant, Muntari, Nocerino e Zapata. E Birsa naturalmente, uno di cui non solo il popolo rossonero ignorava le qualità pedatorie, ma fino a pochi giorni persino la stessa esistenza sulla faccia della terra.
Figuriamoci trovarcelo in campo dall’inizio in una partita di Champions.

Insomma, ne avevo da dire, poi però succede che faccio un lavoro un po’ strano, come spesso accade a quelli che abitano a Milano, e che a volte mi capiti di svegliarmi ad ore veramente inaccettabili come le sei del mattino. Ed è stato poco dopo, leggendo una mail, che ho scoperto una cosa che ha mandato tutti le mie raffinate elucubrazioni in soffitta.
L’Orso se ne è andato. Non è uno scherzo. Chiamate, sms e messaggi. Colo, Osva, Lucamodena, alla fine lo scrive anche l’Ultimo. Allora è vero. Davvero. Se ne è andato.

Ora, magari voi non sapete di chi sto parlando e direte machissenefrega, ma se c’è un motivo per cui aveva un senso andare in curva, era proprio per gente come l’Orso. Di cui non voglio stare qua a cantare gli elogi, seguendo la logica della retorica ultras per cui vivrai sempre nei nostri cuori. Perché l’Orso ribaltava tutte le logiche dell’immagine stereotipata che si ha del curvaiolo medio. Lui che era enorme, ma tutt’altro che orso, ma anzi, faceva ridere, con un’ironia perfida e senza limiti, con la sua erre moscia e l’aria annoiata, lui era sempre in prima fila in tutti i cortei in trasferta, con la faccia sorniona di chi va a fare una gita domenicale di quelle che alla fine freghi il cesto del pic nic ai vicini, ci provi con le loro donne, vomiti nel cesto dei giochi dei bambini e alla fine ti risvegli sbronzo a dormire da qualche parte che non sai nemmeno tu. L’Orso di cui si raccontano leggende, che non so se siano vere o no e nemmeno me ne importa, come quella – fantastica – di quando era andato a Madrid a trovare degli amici dell’Atletico e come prima cosa si è tolto la soddisfazione di cagare davanti al Bernabeu. Un gesto situazionista che nemmeno Bunuel avrebbe osato mai.

Beh, io non lo so se sia un’invenzione, però mi ricordo di sicuro, quella volta di ritorno da Verona, credo dopo un’immonda sconfitta per 3 a 1, quando ci siamo svegliati in mezzo alla campagna veneta e l’Orso, anzi Lord Orso, si è messo a parlare con il Tigre come se fosse un nobile del 1700, invitando i villici del luogo a portare delle vivande.
E come questa, mille altre situazioni in cui ho ringraziato Iddio di essere da qualche parte d’Italia dietro ad uno striscione di cinque lettere (F-O-S-S-A) invece che starmene a casa davanti alla tv o fare la passeggiata mano nella mano con la fidanzata.

Per cui alla fine, oltre queste poche righe vorrei dedicare all’Orso forse la cosa più bella di ieri sera, che non è il gol sghembo di Zapata o quello di Muntari, ma l’applauso spontaneo che è partito da tutto lo stadio, quando i Celtic sotto di due a zero, a cinque dalla fine di una partita persa immeritatamente, hanno alzato un You’ll never walk alone che levati. C’eravamo insultati, loro ci avevano mandato a fanculo in un italiano improbabile, noi gli avevamo fatto, chi più chi meno, dei gesti tipicamente latini di minaccia quando l’abbiamo messa. Però alla fine il popolo del calcio si conosce e si riconosce, e davanti a quella prova di fede, proprio non si poteva fare altro che applaudire.

Quell’applauso e quel coro è per te, Orso, che la terra ti sia lieve, tu che eri così tanto e forse troppo.
Salutaci Pedro. Non camminerete mai da soli.

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