Cronache del dopobomba. Capitolo I

26 Agosto 2012. Milan- Sampdoria 0-1

Avete presente l’espressione di Mickey Rourke in Angel Heart, quando il poliziotto ciccione gli dice che il suo destino è quello di bruciare all’inferno per il resto dei suoi giorni (l’avete visto Angel Heart vero? Non ve lo stiamo spoilerando? Meno male)? Ecco, era più o meno quella che domenica verso le 20 aveva dipinto in volto ognuno dei 30 mila milanisti presenti allo stadio (oltre al migliaio scarso di doriani che festeggiavano cantando  come se se avessero appena vinto l’Eurovision Contest).

Disperazione, scoramento, disillusione.

La sensazione che la stagione sarà una lunga e infinita visita dal proctologo. E questa è solo il meglio.

Abbiamo perso contro la Doria. Un tiro in porta, un gol. A casa, ciao. Manco c’avessero ancora Vialli e Cerezo. Attilio Lombardo e Chiorri.

E adesso?

E se in Europa becchiamo subito il Barca? Il Pesegè con Ibra che ci segna e ci fa l’occhiolino? Ma anche la Lazie, il Napule, la Rioma? E i gobbi? Oddio e il derby? No, dico il derby? Cosa facciamo?

La facciamo sospendere come avevano fatto loro in Scempions nel 2005 bersagliando il povero Dida di torce (l’avessero invalidato, almeno)?

Facciamo un passo indietro: non è che le premesse fossero migliori. Al fischio d’inizio alle 18 le sensazioni erano due. La prima è che il Grande Popolo Rossonero non è esattamente persuaso dal Progetto Milan, visto che ha disertato lo stadio come accadeva a metà anni 90 per un quarto di coppa Italia. La seconda era l’imbarazzo. Come quando vendi la moto e prendi lo scooter e dici che almeno consumi meno. Sfigato. Come quando ti lascia una figa e ti metti con una media e gli amici ti dicono che è simpatica. Come no.

Niente Thiago, niente Ibra. Manco Gattuso. Via Van Bommel. Aquilani alla viola non si capisce perché. Antonini c’è ancora. Bonera senatore (Bonera!). Nocerino metrosexual. Flamini ce l’eravamo scordati e non ci mancava. Come in Azzurro in cui non c’è nemmeno un prete per chiacchierar, manco un Culone Seedorf a far scannare la gente. Catatonici, rassegnati, placide vacche pronte al macello.

E uno dice: ma incazziamoci. E bravo, lui. Ai tempi belli a fine luglio la Fossa avrebbe riempito via Turati. Dopo la cessione dei Due avrebbe militarmente occupato Milanello e alla prima bloccato l’arrivo del pullman. Invece niente. Nessuno che fa il lavoro sporco. Nessuno che funge da coscienza collettiva dell’inconscio rossonero. Accondiscendenza totale. Chi ci vede fideistico allineamento, chi calcolata strategia. Fino a che a metà primo tempo, dopo un’estate in cui scientificamente la squadra è stata smantellata, arriva clamorosa la feroce contestazione della Curva. Un lenzuolino: “31 Agosto Attendiamo Fiduciosi”. Non sarà troppo?

Da lì in poi il diluvio. I doriani ci cantano a casa nostra, quelli di là si accontentano di insultare Cassano (sai che soddisfazione).

Poi, come in un dramma di Ibsen, i ciclisti la mettono.

Il pueblo nell’ordine: sfancula copiosamente Bonera, dileggia la pochezza tattica di Montolivo, sogna Robinho sigillato su un container diretto per un viaggio di sola andata per Maracaibo, inizia ad avere perplessità sul Faraone, accoglie Pazzini come fosse John Wayne con tutto il Settimo Cavalleggeri, vorrebbe vedere Allegri morto. Ammira solo la rude presenza piratesca di Marione Yepes che, fra parentesi, è anche l’unico che rischia di buttarla dentro. Si dispera, bestemmia, invoca lo spirito di Marco, di Giorgione, di Sheva. Sacramenta, crista e alla fine poi getta la spugna.

Alla fine le macerie.

Come nel più scontato dei blockbuster hollywoodiani in cui il negro buono muore nella penultima scena, prendiamo foreste di pali e perdiamo, fra lo scoramento dei casciavit che lasciano lo stadio mormorando il Requiem di Mozart.

E c’è ancora qualcuno che dice. Eh, ma siamo stati in Serie B. Eh no, fermi tutti.

Nel 1983 abbiamo toccato il punto più basso. Ma c’era una squadra giovane ma davvero (Tassotti, Evani, Battistini, Romano, Icardi) c’era un popolo che a Cesena pochi mesi prima si era stretto attorno ai suoi colori, c’era un presidente filibustiere (avremmo scoperto poi) ma che dava entusiasmo, c’era una Curva che dava lezioni (e che lezioni, chiedere ai bauscia).

C’era il Capitano. C’era il Milan. Una squadra nobile ma proletaria, destinata a soffrire, visceralmente amata.

C’era quella cosa che rende una squadra tale ancora prima dei campioni  e dei giocatori.

L’identità, la tradizione, lo spirito, l’attaccamento, l’ideale.

Qualcosa che si è perso fra la scritta “la squadra più titolata al mondo”, i giocatori con la cresta, i balletti di mercato, lo svuotamento di S.Siro. Quella roba che nel 1998 alla contestazione contro il Parma aveva  fatto girare di schiena uno stadio intera e pochi mesi dopo applaudire a scena aperta squadra umiliata in casa da Batistuta, ma che fino al 90mo c’aveva provato.

Qualcosa che adesso ti lascia con la sensazione che ti abbiano fregato e con l’ansia da abbandono.

E se vi sembra retorica, non avete capito niente.

Perché niente è più retorico che amare disperatamente una squadra di calcio che perde in casa la prima di campionato.

vostro

Conte Fiele

Una risposta a “Cronache del dopobomba. Capitolo I”

  1. Ci sarebbe anche una squadra che perde anche la seconda di campionato.
    Vi ho detto che mio padre tiene al Bulagna e c’ha anche l’autografo di Dino Sarti?

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