Big Takeover, cap. XVII: Milan-Bave 0-0

Ricordo solo che mi sono girato e dietro di me si stagliava la notte assoluta di Milano, le stelle, le lucine lontane dei grattacieli, tutta l’indifferenza dello spazio verso il terrore cupo che lento scemava via dal mio cuore. Per un secondo mi è apparsa vicino alla luna la facciona di Rino truccato come David Bowie in versione Ziggy Stardust che mi cantava There’s a starmaaaaan waiting in the sky. Ero chiaramente sotto choc, come tutti del resto. Colo aveva le mani sugli occhi, di Mirko e Christian avevo perso le tracce, forse qualcuno era anche svenuto con discrezione tipicamente milanese. In generale, tutti avevamo la classica espressione di chi gli è apparsa la morte con tanto di falce in mano, tipo quando vedi un TIR che esce da una galleria in contromano sulla Serravalle o scorgi una lettera dell’Esatri nella casella postale.

Era il 93esimo inoltrato e Icardi aveva appena spedito fuori una di quelle palle che lo capisci già a centrocampo che finirà male, mentre vedi le Merde che a folate si avvicinano alla tua area e ti fai sempre più piccolo davanti al disastro immanente. Una bava va via sulla fascia, la mette ad un altro di loro inspiegabilmente solo che a sua volta la piazza in mezzo. E tu pensi, ma perché non li stiamo abbattendo senza senso con delle tacchettate selvagge sugli stinchi? Perché li facciamo giocare ancora che è praticamente finita Cristo Dio? Ammazzateli, uccideteli, pigliate mille rossi, ma fermate questa cazzo di azione, ORA! Invece era ormai tardi: Icardi era solo solissimo, non poteva far altro che spingerla dentro.

E invece, inspiegabilmente, insensatamente, l’ha spedita fuori. Come Cristo a Pasqua, sono risorto, con molta, molta calma. Tipo che mezz’ora dopo ancora mi reggevo alla balaustra mentre stavo scendendo quelle millesettecento scale che ti riportano a livello zero.

Adesso posso dirlo: la tragedia in arrivo la sentivo dentro le ossa dal primo secondo in cui mi son posizionato sull’ultimo seggiolino dell’ultima fila del Terzo Anello Blu, una distanza così irreale che tutto mi sembrava un film, per lo più un puro distillato d’angoscia. Perché diciamocelo, tutto sembrava predisposto verso una solenne – posso dirlo? – inculata di proporzioni bibliche. Il gol annullato, la prima rete gol clamorosa buttata via da loro, la sensazione che i ragazzi facessero fatica a stare nella partita, a non subirla, la consapevolezza dell’inadeguatezza di alcuni nostri, un po’ perché sono arrivati spremuti dopo aver galoppato per tre mesi, un po’ perché questo sono e questo possono dare. Cioè non abbastanza per una partita come quella di mercoledì.
La gran parte di San Siro, cioè quella che porta i colori del fuoco e della passione e non di quella maglia di merda da zarri, lo capisce, soffre e incita i ragazzi a gran voce. Vi seguiremo Fino alla Morte e a momenti, per la verità, la morte al 93esimo stava per arrivare pure – ma non questa volta. Non questa sera.

Perché ci sono derby in cui la senti la sconfitta nell’aria. Quando sei più debole, ma a volte anche quando sei più forte. Come quando nel 1990 a cinque dalla fine ci ha segnato un noto narcotrafficante (ahahahah, Nicolino birichino). Il derby maledetto di Branca. Quelli in cui immancabile Abate faceva una cazzata e vedevi Milito che scappava via. A volte meritavamo di perdere, molte altre volte no, ma così andava. E te lo sentivi. Invece ieri abbiamo portato a casa la pellaccia. Lavorando di gomito, soffrendo, tenendo botta, con un po’ di culo ma molto molto carattere, di sicuro quello di gente come Kessiè, Romagnoli e di Capitano Leo, che a momenti gliela piazzava. Non basta di certo per farci una grande squadra, ma da qui si può e si deve ripartire.
Alla fine è 0 a 0. Come un derby di tanti anni fa, decisamente meno importante. Faceva caldo, ma lo stadio era pieno, 60mila persone. Era il Giugno 1987. Era il derby del Mundialito. Che mi ricordo solo per due cose: Claudio Borghi, quello che Silvione voleva al posto di Rijkaard, che contro le Merde si ferma mentre è solo davanti al portiere perché aveva sentito un fischio e pensava di essere in fuorigioco, sto scemo. E poi per il saluto sotto la Curva Sud che ci aveva fatto Ray Colin Wilkins alla fine di Milan-Barcellona, l’ultima partita di quel torneo. Sapeva che sarebbe andato via, gli acquisti di Van Basten e Gullit erano già ufficiali, ma a differenza di Hateley era rimasto per quelle poche ultime partite con la nostra maglia. L’avevo visto per la prima volta nel 1984 in un Milan-Brescia (credo) di Coppa Italia, insieme a mio padre. La partita era appena iniziata, lui aveva sventagliato sulla fascia una delle sue rasoiate. Tutto San Siro aveva fatto un oooooohhh di ammirazione, che di piedi buoni era un po’ che non se ne vedevano.

Invece quella sera del 1987 mentre era portato in trionfo sulle spalle dai compagni, Ray piangeva come un bambino. Cantavamo tutti per lui, perché anche se stavano finalmente per arrivare momenti migliori, Ray c’era stato in anni importanti e difficili, ci aveva dato tutto e noi l’avevamo accolto e sostenuto con quella cieca passione con cui a quel tempo i milanisti amavano alla follia una squadra tutto sommata modesta. Lui teneva le mani unite e ci diceva addio e grazie, fra le lacrime.
Lo sai Ray, mercoledì sera, mentre il Capitano alzava in cielo la tua maglia verso la Curva, gli occhi lucidi questa volta li avevamo noi.
Reeeeeicolin Wilkins, Wilkins!/Reeeeeicolin Wilkins, Wilkins!

Una risposta a “Big Takeover, cap. XVII: Milan-Bave 0-0”

  1. Si respira aria di derby dalle tue parole.
    L’aria della parte giusta, quella del vecchio cuore. Che non può che essere rossonero, come tutti noi.
    Grazie CFiele e Grande Ray ⚫️

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