Big Takeover, cap. XVI: Milan-Chievo 3-2

Praticamente avevo finito di vedere Peaky Blinders, ed ero pervaso dal classico senso di vuoto che ti prende quando termina una serie e la vita tutto ad un tratto ti sembra vuota come una domenica di Ottobre senza campionato. Insomma, avrei potuto leggere un buon libro davanti al caminetto (ad avercelo), rimirare l’occhio della madre di Valentina Nappi in qualche struggente interpretazione, Ma invece, ho ceduto alle più debole delle leggerezze e ho scanalato su Milan Tv (ebbene sì). Chissà mai che saltasse fuori qualche indispensabile disanima tattica del mio amico Gepy&Gepy Pastore su quante volte Calha la crossa dalla trequarti entro i primi 35 minuti di ogni partita. E invece, come nel peggiore dei filmini familiari quando dall’imbarazzo ti copri gli occhi nel vederti in braghette corte declamare Il passero solitario, ecco una replica di Milan-Chievo di qualche anno fa, quello in cui avevamo quell’orrenda maglia con sottili inserti tricolori. Ho stretto con terrore la mia Poretti da 66 e ho fissato lo schermo mentre le scariche elettrostatiche affrescavano il buio di casa mia: Mexes la smista a Constant, KC21 (cioè, rendetevi conto, si faceva chiamare così) cerca a centrocampo Emanuelson, che arretra e l’allarga per Bojan. Il nuovo Messi (ahaha aha ah) fa quella classica finta a rientrare, per cui giustamente NON è passato alla storia, cerca di saltare l’uomo (ma dove cazzo vai), poi cambia idea e di sicurezza l’allunga dietro. E chi c’è lì ultimo baluardo prima di Abbiati? Zapata.

Stavo per urlare NNNoooooooooo come fa Homer Simpson quando si risveglia da un incubo in cui hai finito la birra in frigo, quando l’incubo itself si è palesato in campo direttamente in campo domenica pomeriggio, non appena Zapatone, ancora lui, immarcescibile, l’ha lisciata sulla deviazione sfigata di Bonucci. Palla a Mariuz Spetinski (chi?), botta da due metri, gol, 1-1. E’ uno di quei momenti di sconforto in cui non puoi fare altro che alzarti per andare a cambiare l’acqua al merlo.

Insomma, sono giusto lì che aspetto Colo che sta facendo la coda per delle tonificanti birrette che sento un brusio. Chesuccedechesuccede. Mi affaccio speranzoso: sarà un rigorino? Una bella punizia dal limite? Come no. 1-2, gol della madonna di Inglese, mi informano. Ma che cazzo.

Uno dice. La classica doccia fredda inaspettata. Non esattamente. C’era un’aria strana, la si sentiva già giù dal baretto mentre facevamo le tabelline classifica in mano. Bisogna vincerla. E infatti, manco dirlo, siamo andati subito in gol appena abbiano iniziato a spingere. Cross di Kessie, casino in mezzo, Hakan che da solo la ficca dentro e mette la firma per la prima volta sul tabellone di San Siro. Sembrava tutto troppo facile. Poi da lì abbiamo provato a fare quello che evidentemente non è nelle nostre capacità attuali: gestire il risultato, gigioneggiare, fare gli splendidi, come quelli che ne sanno. Un atteggiamento molto poco Gattusiano. E infatti, senza manco dannarsi troppo, in due minuti la versione democristiana del Verona ci sbeffeggia e ci fa andare a riposo con una piva lunga così.

La memoria di tutti noi è volata a quel monumento all’impotenza calcistica che è stato l’anno scorso la sconfitta in casa con l’Empoli. Ritorniamo in campo, calma ragazzi c’è tutto un tempo per giocarsela. San Siro un po’ ci crede e un po’ mica tanto. Stanchi, siamo stanchi, di testa e di gamba, ci sta, abbiamo spinto finora come dei dannati e a sti ragazzi più di così non gli si può davvero chiedere. Insomma, stiamo perdendo in casa, ma dal nostro DNA riaffiora lentamente il senso ancestrale per quel tipo di rimonta orgasmica che è dura ma non impossibile. Passano dieci minuti di assedio più o meno infruttuoso, finché la palla carambola fuori area, Luchino Biglia la spara di giustezza, Sorrentino ci arriva ma nulla può sul tap-in di Cutrone. L’arbitro senza manco pensarci mezzo secondo ci ammazza l’urlo e fischia il fuorigioco. E lì c’è lo sliding doors narrativo. Che succede, fermi tutti… Non batte dal fondo, non giocano, che guarda? Scatta la VAR. Ci credo non ci credo, è fuorigioco, rassegnatevi, dico io scaramantico. E invece.

San Siro esplode in un boato che credo avranno sentito pure i peruviani nei parchi a Bonola. Cutrone corre forsennato verso la Sud per pigliarsi la palla e scalpella ulteriormente le sue iniziali nei nostri teneri cuori. E’ scritto che la si debba portare a casa. Sì ma quando? San Siro ulula e incita i ragazzi, se ci fosse dato di farlo scenderemmo in campo materialmente per spingerli verso la porta avversaria. Minuto 60. Esce Fabietto Borini, Gennaro se la gioca fino alla fine, difesa a 3 e dentro Andre’ Silva. E io qua dico, preciso come a Genova: la decide lui.

Ora, portatemi le vostre fidanzate acciocché solo imponendo le mie mani sul loro ventre (ci mancherebbe) siano benedette con il Frutto della Vita. Le mie capacità prenoterapeutiche si materializzano sul più scontato degli angoli (NON battuto corto finalmente, puttana la galera) quando di rimbalzo Silva la scaglia dentro, ribaltandola a poco più di cinque dalla fine. Mi sono visto le immagini dopo il gol: Cutrone a parte, che probabilmente in questo momento sta correndo ancora sulla Paullese, gli altri arrivano un po’ dopo ad abbracciare la ballerina portugheisa. Non penso per mancanza di entusiasmo, anzi – ma perché erano davvero spossati.

Siamo tutti con Rino mentre con il fare di chi ti omaggerebbe di una compilation di ceffoni grida al quarto uomo: ‘ma si può sapere quanto manca?’. Kessie sbaglia pure il rigore, non si può star sereni mai in questa vita. Mai. Finisce.

A centro campo li vediamo stringersi in un cerchio. Grazie ragazzi, adesso riposatevi: che ne so, bevetevi dei Campari, fate all’amore, andate a scribacchiare su quell’osceno murales pubblicitario dedicato alle Merde con cui hanno osato imbrattare la nostra bella città. Dal derby in Coppa Italia di Dicembre sono stati i tre mesi più degni di essere vissuti degli ultimi cinque anni. Chi l’avrebbe detto.

E comunque, ce n’est qu’un debut, continuons le combat. Perchè non so voi, ma io inizio a prenderci gusto.

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