Big Takeover, cap. XIV – Milan-Lazzie 2-1

Avete mai visto “Un lupo mannaro americano a Londra”? In pratica un povero studente americano perso di notte nella brughiera inglese viene azzannato da un lupo mannaro all’uscita da un pub. Così, come se fosse la cosa più normale del mondo. Come essere presi a pinte in faccia da una ciurma di Millwall perché sei a casa loro e hai addosso la sciarpa del West Ham. Sta di fatto che passata la bua, a malincuore lo yankee scopre che non solo anche a lui con la luna piena spuntano zanne e artigli, ma che viene pure colto da un insaziabile desiderio di sangue umano. Insomma, come a ognuno di noi prima di una partita con i gobbi – ahaha. Occhei, occhei.
Ma in pratica, ieri sera mentre mi appropinquavo con i miei sodali verso un Baretto immerso nella scighéra, avevo davvero la sensazione che potesse accadere qualcosa di sovrannaturale, manco spuntasse sul tabellone la Madonna di Medjugorie tanto osannata da quella buonanima di Brosio. Beh, non mi sbagliavo.

Sta di fatto che pronti via: eravamo tutti lì  con gli occhi rintanati sotto al cappello di lana per evitare di contare le pere che inevitabilmente ci avrebbe rifilato la Lazie, notoriamente alfiera di quel futbol bailado che tanto sta facendo strabuzzare gli occhi all’Europa tutta. E invece, spuntando dalla coltre nebbiosa che si addensava sul campo, ecco che ti esce un Milan direttamente catapultato dai tempi belli. Massiccio, incazzato, compatto, con una fame che non si vedeva da mo’. Al posto del levantino indolente Calha, contro il quale abbiamo speso per mesi parole di fuoco, un giocatore coi controcazzi. Che corre, si propone e soprattutto ha dei piedi della madonna (questo per la verità mai messo in dubbio). Ma non solo, anche una coppia difensiva Bonucci-Roma severa ma giusta, che finalmente trasmette sicurezza; e là davanti un invasato costato zero lire come Cutrone che corre, pressa e si catapulta su ogni pallone, a volte persino incidentalmente buttandolo in rete con svariate parti del corpo a sua (involontaria) scelta. Soprattutto, è giusto e doveroso riconoscerlo, un Calabria hombre del partido al quale nella notte deve aver fatto visita lo spirito di Pendolino Cafù: perfetto a coprire, devastante negli inserimenti, preciso, pulito, addirittura dal suo piede benedetto dal Signore arriva la palla che Jack incoccia per il raddoppio, dopo che classicamente ci siamo addormentati e quelli, appena appena premendo sull’acceleratore, ci avevano messo l’inevitabile pera del pareggio. Ma crediateci o meno, ancora prima di accorgersene, a fine Primo Tempo siamo in vantaggio. E sostanzialmente meritandocelo tutto. San Siro conscio di questa incredibile e inaspettata situazione si alza e si spella le mani che è una bellezza.

Ora, meglio non dire dove ce le siamo messe le mani, nel secondo tempo. Per un bel 20 minuti abbondanti teniamo botta e anzi, continuiamo a pedalare. Poi inevitabile, esce la garra delle aquile coccodè, che si dannano per non perdere punti contro una squadra assai meno elegante di loro, oh che volgarità. Insomma, c’è da soffrire e si soffre, mettiamo le barricate, vorrei dire che andiamo di fioretto e di clava, ma in realtà menano soprattutto loro. Ogni tot vedo l’omino con il fischietto in bocca che sventola il giallo in faccia ad uno della Lazie, oltretutto domenica sera vestita di un incomprensibile blu scuro che dalle distanze siderali del Secondo Anello sembra quasi un nauseabondo nerazzurro. E sarà l’effetto derby di Natale, ma resistiamo, e quando a Lulic arriva una palla solo da buttare dentro, si accartoccia evitando di provocare qualche decina di migliaia di infarti in simultanea.

E’ una di quelle partite in cui sembra tutto bellissimo. Anzi, troppo: sembra tutto talmente meritato nella nostra coacerva e primitiva determinazione, che ti sembra inevitabile che il Karma ci debba punire con il Calippone finale. Seguiamo gli infiniti cinque minuti finali trattenendo il fiato o bestemmiando dietro ad Andrè Silva, entrato con la flemma di quello che se ne sta a bordo pista a spararsi le pose agli autoscontri. Invece finisce davvero, e dalla nebbia arriva questa sovrannaturale terza vittoria consecutiva che evita di farci risucchiare dal gruppone degli inseguitori del Gran Premio della Montagna.

Arriva soprattutto l’idea che una squadra c’è. Che non è ancora al massimo della sua forza (beh, speriamo almeno), ma che non vive di contraddizioni sul modulo, sugli esperimenti e sui tentativi. I titolari sono quelli, al massimo se ci sono delle defezioni ci si mette una toppa (e pensando a ieri c’è da chiedersi fra Cutrone e Kalinic la vera toppa chi debba essere) ma non c’è ogni volta da ripartire da zero. Speriamo solo che dal regno dell’ultraterreno arrivi anche un po’ di continuità. Di sicuro Gennaro nostro, a furia di grida e scappellotti, li ha messi in campo con un senso compiuto.
Anche perché a lui, lupo calabrese, un lupo mannaro al massimo gli pettina la barba, altroché.

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