A Love Supreme, cap. III – Milan-Chievo

Illumina San Siro, con il numero nove…. Gonzaaaaaaloooooo Higuaiiiiiiiiinnnn!
Lo stadio si spolmona così tanto che secondo me l’urlo l’hanno sentito pure i Latin Kings che stavano facendo le penne con i booster alla Montagnetta.
Diciamocelo, da quanto non ne avevamo uno così forte, uno così decisivo, che ti dà sempre l’idea di poter far succedere qualcosa, di cambiare la partita? E’ presto detto amici, non ci vuole molto. Dai tempi di Ibra, semplice. Sei lunghi campionati. Sembra un’era geologica fa, vero? Da allora anni e anni di bravi ragazzi nel migliore dei casi, di promesse mancate, di figuranti che ti fanno lanciare imprecazioni da sverniciare il portone di Santa Maria delle Grazie.
San Siro dopo il raddoppio si spella le mani, bellissima la palla di Suso, perfetto il movimento di Gonzalo che si fa trovare smarcato, la stoppa si gira e oplà, la incrocia di giustezza, come se fosse la cosa più semplice del mondo, ma semplice non è, provate a darla a quello con la K che avevamo l’anno scorso. La rete si gonfia sotto di noi, è un gol così bello che sembra un assolo con la trombetta silenziata di Miles Davis in Ascenseur pour l’échafaud. Siamo gente sensibile, mica siamo più abituati a queste delizie e per questo in parecchi-compreso chi scrive- ci fermiamo aspettando che l’omino del VAR non rovini tutto con un fuorigioco che per fortuna non c’e’.
Macché è buono amici, palla al centro. 2-0 e via. Non crediamo ai nostri occhi. Finalmente facciamo quello che dovrebbe sbrigare la classica squadra di alta classica quando incontra una che sta in fondo: prendere le misure, spingere, creare occasioni e prima o poi metterla, magari piazzandone un paio prima della ripresa, giusto per chiudere in freezer i tre punti. Una di quelle partite in cui arrivi al baretto, te ne scoli un paio e sei tranquillo, rilassato, ti godi il sole e fai girare le birrette, fiducioso del fatto che ragazzi faranno il loro dovere, senza l’ansia classica della cazzata latente in arrivo. Tipo quella che abbiamo combinato ad Empoli per capirci, o in casa con i Berghem.
Per una volta, facciamoci i complimenti. Certo, davanti avevamo il Chievo, il maledetto Chievo in una versione così dimessa che, per prendere la dannata pera che subiamo ogni partita che Dio comanda, Kessiè si è esibito nel controllo peggiore della storia, allungandola nientemeno che a Pellissier. Che nulla ha potuto fare se non piazzarla nell’angolo basso, facendo rumoreggiare di frustrazione lo stadio che non vedeva l’ora di potere dire ‘clean sheet’, che ‘reti inviolate’ ormai non si usa più, un po’ come ‘stopper’ o ‘libero’.
Che comunque dicevo, Pellissier. Quando ha segnato, incazzatura a parte, ci siamo chiesti tutti: ma ancora gioca? Ma quanti anni ha Santa Madonna? Beh, ve lo dico io, 39. Di cui diciassette passati con la maglia del noiosissimo, scialbo Chievo. Me lo ricordo in un’intervista, povero Cristo, quando gli chiedevano com’era vivere a Verona, dove il 99% della gente tifa Hellas e il restante 1% comunque un’altra squadra, praticamente sempre in trasferta anche e soprattutto quando giochi in casa.
Beh, Sandrone Pellissier c’era pure quando nel 2004 in un giorno di marzo abbiamo vissuto un pomeriggio di terrore, sotto per 0-2 fino a dieci dalla fine, finché prima P. l’ha accorciata e poi Sheva al novantasettesimo (che minuto meraviglioso eh?) l’ha incocciata, travolgendo palla e difensori e uccellando Marchegiani, agguantando così un insperato punticino, mentre la Rometta si suicidava in casa contro il Bologna. Si dirà, era un altro Milan. Eccome ragazzi. Lo stadio sotto di due gol continuava a spingere, sicuro che ce l’avremmo fatta, perché eravamo troppo più forti, troppo più belli, un po’ come era successo qualche settimana prima, quando avevamo rimontato e ribaltato le Merde in un derby passato alla storia. Lassù in Fossa, pochi metri sopra rispetto a dove sono adesso sul cocuzzolo del Primo Anello, mi mangiavo le unghie fino ai gomiti dalla tensione mentre i nostri partivano all’assalto dell’odioso fortino gialloblù, finché dai che dai, alla fine è caduto, tiè. Non per farci male, ma in quel giorno di marzo in campo c’erano Paolino Maldini. Cafu. Quello con la P. Clarence. Rui Costa. Inzaghi. Kakà. Sheva, capocannoniere alla fine con 24, dico 24 gol.
E in mezzo al campo anche quel giorno, come per altre 32 partite di quel campionato (su 34 totali), Gennaro Gattuso. A correre, lottare, sputare sangue. Non ha ancora smesso, solo che adesso lo fa dalla nostra panchina.
Basterà? Vedremo. Domenica abbiamo davvero fatto solo il nostro dovere, non illudiamoci. Però ora, non so voi, ma io comunque la trovo una cosa romantica.
Un po’ come un assolo di Miles Davis.

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