Starmen – Noi. E Ricky Albertosi

Il giorno delle bandiere cominciò dalla mattina presto, perché bastava mettere il muso fuori e pressoché in ogni via ne beccavi almeno una pencolante da un balcone, da un davanzale. Rossa e nera, spesso con piazzata in mezzo una Stella. Potevi fare una sorta di censimento, semmai ce ne fosse stato bisogno – e non ce n’era proprio, figuriamoci quell’anno, quel giorno.

Domenica 6 maggio 1979, Milan-Bologna, penultima di campionato. Milan punti 42, Perugia 38, ricorda la Gazzetta dello Sport. Già all’ora della messa, processione, ma verso San Siro. Pieno alle 13, e mancavano tre ore. Pieno significava circa 65-66mila persone, perché la parte bassa del secondo anello era inagibile, però il problema era che stavolta, oltre ai 65mila umani, bisognava fare spazio anche ad almeno 10mila bandiere, quelle dei balconi e oltre. E vabbé, anche ai tantissimi che avevano scavalcato, che si erano infilati. San Siro nel sole e in quadricromia: il verde del campo, il rosso e nero del mare dei vessilli, il giallo di Stelle cucite ovunque. E palloncini, fumogeni, pezzetti di carta. Tutto legato dal comune rifiuto di ogni prudenza, di ogni scaramanzia, questa volta tragedie non ce ne sarebbero state, avevamo già dato a Verona.

Forse lo stadio milanista più bello di sempre. Visto con gli occhi del bambino, poi.
Eccoci tutti, siamo noi del Milan. Il fiume tracimò sullo spazio inibito, e peccato non si potesse proprio secondo il signor Sciarata, Questore di Milano. Togliersi da lì, o niente partita: e per esserne ancora più sicuro, mise tre o quattro poliziotti a presidiare lo sbocco dagli spogliatoi.
Ne uscì solo uno, con la maglia rossonera, il più riconoscibile.
Fascia di capitano e microfono al posto del gagliardetto, dei fiori. “Se non liberate lo spazio pevicolante – la solita inconfondibile erre moscia – la Questuva non ci dà il pevmesso di giocave. E vischiamo di pevdeve la partita a tavolino”.
Un tifoso con cappelletto in testa sbucò non si sa da dove, si parò davanti al Dieci, accento inconfondibile e disperato: “Signor Rivera, signor Rivera! Io non voglio perdere lo scudetto, vengo da Reggio Calabria, ho fatto 1.500 chilometri”. Ma funzionò. Che assist, quello dell’assessore allo sport di Milano Paride Accetti, altro che il signor “Estintori Meteor” dell’altoparlante.

Il Mare Rossonero, pian piano, cominciò a ritirarsi, anche grazie a un improvvisato e schiaffeggiante servizio d’ordine della curva e dei Milan Clubs. Venticinque minuti abbondanti di ritardo. Negli spogliatoi, per Ricky Albertosi, ci fu tempo per un’altra sigaretta: «Solo Gianni Rivera poteva riuscire a fare spostare tutta quella gente», ci racconta. «Un po’ di tensione ci fu, eh? Si è corso veramente il rischio di non giocare, ma Rivera era un vero capopopolo, grande personalità. Il suo carisma presso i tifosi era enorme. E alla fine siamo scesi in campo».
Di tutta quella banda in attesa nella pancia dello stadio, solo altri due, oltre a lui e al Gianni, sapevano come era fatto uno scudetto: Fabio Capello, ormai riserva fissa, e il Barone Nils Liedholm, l’unico svedese che in una calda giornata di primavera italiana riusciva anche a indossare il soprabito. Per dire chi erano questi che stavano per interpretare da protagonisti la giornata più bella. «Infatti nessuno se lo aspettava, all’inizio. Obiettivo dichiarato, arrivare più in alto possibile, mica eravamo la Juve, o il Toro. Poi come sempre insieme ai risultati arrivava la fiducia, giocavamo anche abbastanza bene e io ero ancora in pista, in forma. Perché a 40 anni ero tranquillo, l’esperienza mi aiutava a prepararmi bene, a fare le cose giuste. I numeri veri avevo dovuto farli fatti due anni prima, per evitare di finire in zona retrocessione». Tipo urlare dietro a qualcuno di quei ragazzotti che gli giocavano davanti. «Baresi, che fenomeno. Quante gliene ho dette quando ha debuttato a Verona, ma era fortissimo già da allora. E non dimentichiamo Collovati. Li richiamavo, ma sono stati la fortuna di quel Milan. E tutti fecero la loro parte, aiutarono molto anche gli altri più esperti, Morini, Bet, Bigon».

E allora finalmente tutti entrarono sul prato a sgambettare, nella tavolozza anche una decina di punti bianchi, quelli del Bologna, necessitanti di un punticino causa salvezza. Guarda te a volte il caso. Sgambettare, la pantomima, furono dunque la logica conseguenza. Il Ricky stava con le mani sui fianchi davanti alla linea di porta, il giallo del suo maglione a sovrapporsi a quello delle Stelle alle sue spalle. A un certo punto, dal nulla, Juliano staffilò da fuori e lo costrinse a deviare in angolo. Avevano fatto insieme tre Mondiali, il portierone si girò e lo guardò brutto: quell’altro gli fece l’applauso, sorridendo. Il vero spettacolo continuava a essere intorno. Nel Commandos Tigre, con il Mosca e Pecos, firmatario di quella Stella di cartone riempita dei nomi dei giocatori finita su tutte, ma proprio tutte le prime pagine del giorno dopo. Dal secondo anello, invece, legata a un mucchio di palloncini, ne partì un’altra con scritto “Per Nereo”. Rocco anche sugli striscioni, sui tazebao scritti lì, sul momento. L’assenza più presente, figuriamoci se i milanisti potevano dimenticare che se c’era uno di loro che avrebbe voluto vivere quel momento era lui, il Paròn andato via quattro mesi prima. Ricky, che nel secondo tempo non ebbe fastidi di sorta, poteva osservare tutto.

«Quel giorno il pubblico fu incredibile. L’entrata in campo, se me la ricordo. Ma per tutto quell’anno, a ogni partita, i milanisti furono eccezionali. Solo incitamento, solo applausi, sempre, anche quando a un certo punto, nel girone di ritorno, cominciammo a non giocare bene, ad avere qualche difficoltà. Meritavano quella soddisfazione, perché allora come oggi, la tifoseria del Milan è unica, immensa, attaccata alla squadra sempre e comunque». Ecco, magari questo avrebbe potuto raccontare Everardo Dalla Noce, mitico giornalista Rai più avvezzo alla Borsa Valori che a San Siro, voce di quel pomeriggio per milioni di radioline. E Ameri? Ciotti? Ma va’, erano a Roma, a Vicenza, dove si giocava per la salvezza, al Menti poi c’era sua maestà la Juventus, si sarebbe parlato di rigori non dati al Lanerossi, poi finito in B. Milan-Bologna fu il terzo (terzo) campo di Tutto il Calcio, e l’ineffabile Everardo, ai passaggi di linea, raccontava con una fine ma percepibile ironia che “non c’erano note di cronaca, e ci mancherebbe altro”. Ben altre le parole, invece, al minuto 87’, partita sospesa dal signor Gino Menicucci di Firenze per manifesta finzione. “Vi collegate mentre viene decretata la fine dell’incontro. Il Milan, con una giornata d’anticipo e con il suffragio della matematica, è campione d’Italia per la decima volta. Mentre vi parlo, San Siro sembra… sembra impazzito. Le bandiere si mescolano con i razzi colorati e fumanti. I giocatori del Milan, alcuni sono in campo, altri hanno già guadagnato gli spogliatoi. Rivera poco fa è stato portato in trionfo, Liedholm, con meno self-control scandinavo, si è sbracciato e ha salutato, mi sembra giusto”. Eccerto.

E lo stadio era veramente impazzito, la squadra fuggì alla svelta di sotto, niente giro d’onore, festa teleguidata. Era, eravamo un mega branco senza controllo, anche noi piccolini rimasti al nostro posto: il campo venne invaso da quelli della curva, del Tigre, ci fu un gruppo di loro che fece il giro con una grande Stella di tela ed era giusto così, perché erano stati anni con la faccia dura, Verona ’73 ma non solo. Arbitri, Buticchi, Rivera dentro e fuori, Milan-Catanzaro per la salvezza, e la solita Juve a sbatterti in faccia campionati e potere. E poi una Milano particolare, per niente da bere, molte periferie, molto cemento, molti spari, e la Curva veniva da lì. Era il loro, il nostro primo scudetto. La Stella, poi.
«Fu una festa incredibile, anche perché sembrava una maledizione, per il Milan», dice Albertosi. E rimane indimenticabile forse anche perché confinata lì, a quel giorno, ai giorni dopo, il monumento a Rocco inaugurato a Milanello, l’amichevole a Trieste con pellegrinaggio al cimitero di Sant’Anna. Una Stella di fiori e una scritta sul nastro: “Ogni promessa è debito”. La mezzanotte scoccò presto, molto presto: Liedholm se ne andò via intuendo tutto, da finissimo ingegno quale era. Rivera smise, e da giocatore grande, si trasformò in dirigente grandine. Il 6 maggio 1980, un anno dopo, era di lunedì, il contrappasso perfetto. Albertosi, senza maglione giallo, andava e veniva dai tribunali sportivi, e stavolta non evitò la retrocessione, anzi. Fuori, la Curva urlava per il suo Milan da salvare. Stavamo per infilarci in un altro, lunghissimo tunnel. Ma è un’altra storia.

Oggi è il 6 maggio 2019, e a San Siro c’è Milan-Bologna. «La data non me la ricordavo, e allora stasera faccio un brindisi», promette il Ricky. Giusto. E niente retrogusti, niente paragoni, e manco nostalgie. È stato solo un giorno radioso. Meraviglioso. Da Milan. La Stella, sua, nostra, ancora lì, per sempre lì, e davanti l’ostinata illusione di poterne pure viverne un’altra.

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