In che mani siamo

Quest’estate parlavo con un interista di portieri e lui ha recitato con la sicurezza di un automa: “il Milan non ha grandi portieri nella sua storia. L’inter sì”. Detta così pareva incontestabile. 

Un attimo: l’ha detta un’interista, meglio pensarci cento volte prima di dargliela buona.

Lammerda mi ha mandato via whatsapp il meme di Diego Lopez che rotola, e mi sono fatta due domande. La prima se è vero che il Milan non ha grandi portieri nella sua storia. Grandi, di quelli che trovi nelle classifiche internazionali, come trovi Maldini e Baresi fissi nei migliori dieci difensori di sempre.

Torna Abbiati. E che cacchio, torna sempre. Dal Torino, dalla Juve, dall’Atletì, dalla panca, come un boomerang. Gli vogliamo bene ma pensavamo di esserci liberati di lui già prima di veder giocare Gabriel. Il 31 agosto durante Milan-Lazio si è cantato più per Diego Lopez che per chiunque altro. L’ex non era in India a ritrovare se stesso, era in panchina ad assistere alla lingua dell’amore, ed è partito un mezzo-coro poco convinto che piuttosto era meglio niente. Adesso tocca sperare nel mode ‘eroe per caso’ on, come su Kallon, su Bucchi. Quando fummo eliminati dal suo primo girone di Champions con Zaccheroni, dopo Milan-Chelsea, pianse: ‘Siamo fuori per colpa mia’. Uno dei nostri, un buon portiere, ogni tanto eroe, ma grande no, siamo onesti. Proprio no.

Poi Sebastiano Rossi. Il prototipo del portiere pazzo – però non “pazzoide” in senso simpatico, haha, che matto: proprio nel senso di pericoloso. Dopo il ritiro, di lui si è occupata la cronaca nera. Eppure “Sebastiano in nazionale, Sebastiano in nazionale”, cantava la curva ai tempi del record di imbattibilità, festeggiato sul campo con un gesto volgare e un po’ mortificante. Rossi era un pericolo pubblico, una variabile impazzita anche nello spogliatoio, gli allenatori non lo amavano e tentavano sempre di farlo fuori. Lui, seduto sulla riva del fiume, vedeva passare il cadavere del suo nemico, fosse Antonioli o Taibi, il povero Pazzagli o il tedesco Lehmann. Quando a San Siro aggredì Bucchi (sempre lui), anche chi lo sosteneva si dovette arrendere. Eppure fu più decisivo di Giovanni Galli (al quale peraltro dobbiamo i rigori di Belgrado), portiere dei Mondiali del 1986, col quale cercammo inutilmente di rimediare al senso di insicurezza cosmico che ci prendeva quando qualcuno tirava e in porta c’erano Nuciari, Terraneo, Ottorino Piotti, non precisamente gente che blindava la rete. D’accordo, l’obiezione è facile: Rossi aveva davanti a sé gli Intoccabili. Però in quel periodo ci metteva del suo, qualche parata pazzesca, preferibilmente coi piedi, oppure in una delle sue uscite intimidatorie, “Prova a segnare e t’ammazzo”. “L’ascensore umano”, come diceva Pellegatti, ci faceva stare abbastanza tranquilli sui calci piazzati. Già era lungo; quando andava su, guadagnava centimetri sia in alto che attorno a sé, utilizzando il grazioso espediente del ginocchio alzato, a minacciare le mandibole degli avversari. Si ricordano certe sue somme bestiate, ma per qualche anno ci diede la sospirata sicurezza. Perché quando un portiere si sente fortissimo, può capitare che lo diventi. Ed ecco, questo vale per Dida.

Peccato che parlare di Dida con una Merda è farsi il cappotto di legno e ora pro nobis, da soli. La paperinite è merito del fumogeno partito dalla Nord, quasi un assioma del sistema interista. Non toglie che Dida sia stato un grande portiere, ma è come se si fossero pappati la Regina a scacchi. Qualsiasi giocatore può calciare ma le mani le usa uno soltanto, e se gli diventano di pastafrolla, ciao. Dopo quell’euroderby Dida è diventato un condannato alla gogna. L’espressione corrucciata, alla lavagna, con quella faccia di chi sembra che si impegna, l’ha sempre avuta. Ma al posto della reattività da pantera, del balzo per cambiare direzione e negare il gol all’Ajax di Ibra – e quello non è culo, non è caso, o lo sai fare o resti in ginocchio a vederla entrare in porta, quella è classe – c’è stata l’ennesima vaccata seguita dal crollo per il buffetto, al Celtic Park.

Le ultime gocce dell’amaro calice prima del “vattene amore che siamo ancora in tempo”, e pure un gesto inutile, inspiegabile e inspiegato, un po’ masochista, come quello delle orche in cattività che mordono il bordo di cemento della vasca-prigione spaccandosi i denti invece di sbranare un domatore di fronte allo stronzissimo pubblico pagante (sì, ho visto Blackfish di recente, free tutti i Willy del mondo).

Ancora prima di passare al calcio in bianco e nero, con i portieri senza guanti come Ricardo Pereira ai rigori – Sarti racconta che comprò i suoi al Coin dopo una dritta di Yashin – mi ero resa conto che “Mai grandi portieri nella storia del Milan” era la classica boiata, di quelle che può dire un fidanzato fedifrago colto sul fatto o un interista. Ho proseguito la ricerca nonostante non sia facile valutare la vecchia guardia: la Nazionale giocava meno, i filmati delle partite tendevano a riprendere i gol presi, non quelli salvati. Bisogna fidarsi di resoconti e memorie, soppesare. Se la palla non era dalle loro parti, i vecchi portieri facevano i fatti loro, bere, fumare, dire due battute a uno che stava là nei pressi. Non facevano preparazioni specifiche e di forti ce n’erano tanti, soprattutto in Italia: come distingui il vero grande dal forte e basta? 

Fabio Cudicini, il Longo di Rocco, della Champions e Intercontinentale del ’69, in un’intervista indica chi aveva davanti in azzurro, dei quattro solo Zoff non è mai stato roba nostra.

Il dualismo manicheo del dopoguerra li ha opposti, ma più che geometrico contro reattivo, normale contro pazzo come un cavallo, brutto contro bello e dannato, quello fra Lorenzo Buffon e Giorgio Ghezzi è una storia di uno contro l’altro, coincidenze e scambi: si scambiano le porte di Milan e Inter passando per il Genoa, e ci scappa pure la cronaca rosa, Buffon si sposa l’ex di Ghezzi. Con i trofei fu più fortunato il Kamikaze. Buffon invece venne convocato dalla FIFA per la selezione ‘Resto d’Europa’. Oggi non ci dice niente, ma prima di lui l’onore andò al campione del mondo nel 1938 Olivieri, dopo di lui a Sarti, Zoff, Zenga, e il pronipote Gianluigi.

Ma ecco Albertosi che lo caccia via canta Elio in ‘Ameri’, e ci sta due volte, la prima perché è il suo talento nascente a segnare la fine di Buffon. La Fiorentina dà Sarti all’Inter e prende Buffon che slitta in panca. La seconda ci sta perché Albertosi è stato un grande portiere. Il tifoso della mia generazione di metterlo fra i grandi non si azzarda o non sa bene chi è. Se l’ha sentito nominare non pensa più al portiere.

Eppure era in porta all’Europeo della monetina nel ’68, al Cagliari nel 1970, è il portierone di Italia-Germania 4-3. Arriva in rossonero a 35 anni e con noi è quello della triplice parata contro il Vicenza dove giocava l’ex Paolo Rossi, della salvezza dalla B nel 77, dello scudetto della stella nel 79. Fin qui, tutto bello e bene. Segue un declino che di simile a quello di Dida ha solo il disamoramento. Una sua incredibile papera contro il Porto elimina il Milan dall’Europa ritrovata dopo anni. Infine il botto del calcioscommesse. Sua la proposta indecente al Presidente Colombo, i milanesi e tifosi sanno delle sue capatine all’Ippodromo e quello che prima lo faceva risultare un simpatico viveur (il portiere matto, appunto) ora appare in una luce un tantino diversa. Passa ai posteri “Albertosi, quello che ci ha mandato in B”. E chissà se quella papera col Porto, pensarono tutti col senno di poi. Lui diede la colpa al pallone nuovo, però a quel punto vatti a fidare. Seguì il distacco. Nonostante il coinvolgimento diretto della società e di un altro giocatore, Morini (quest’ultimo resterà in società per altri 15 anni, come se niente fosse).

Quindi non è vero che il Milan non ha grandi portieri nella sua storia; solo, i grandi portieri del Milan non si ricordano facilmente. Troppo in là nel tempo oppure non hanno belle storie, fanno una brutta fine. Il che mi riporta alla seconda domanda che all’inizio non ho svelato: Diego Lopez, non ti sembra un po’ presto per fare una qualsiasi fine? Torna, facci godere tre anni e poi ne riparliamo.

Ovviamente al meme su whatsapp non ho risposto: mai dare corda a un interista.

2 Risposte a “In che mani siamo”

  1. Pero baghera la pantera era veramente forte non solo aveva i riflessi e sangue freddo ma anche un senso della posizione invidiabile che gli consentiva di non buttarsi quasi mai .

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